La Madonna della Strada di Virginio Ciminaghi nella chiesa di San Nicolò in Novi

Uno scritto tratto da “IN NOVITATE” del 1992 n. 14 p. 74

La chiesa parrocchiale di San Nicolò in Novi Ligure, così come oggi la vediamo, è datata 1687. Opera insigne e grandiosa dell’architetto Antonio Ricca, appartiene al barocco piemontese, del quale è uno dei più ragguardevoli esempi. Sappiamo, peraltro da un incontrovertibile documento del 14 gennaio 1135, che San Nicolò esisteva già a quell’epoca, col titolo prestigioso di Basilica. Qui, sotto quella data, i nostri avi giurarono fedeltà e alleanza a Genova e Pavia impegnandosi ad intervenire in caso di azioni militari contro la vicina Tortona. Tale documento, com’è noto, è la prima pagina della storia della nostra città ed ha avuto autorevoli esegesi da parte di notissimi studiosi, quali Geo Pistarino, Serafino Cavazza, Vincenzo Alberto Trucco e Roberto Allegri. A proposito di questa chiesa monumentale, così come la vediamo, scriveva – nel 1966 – l’artista novese Beppe Levrero (cfr. Lorenzo Motta: Pagine aggiunte ai Ritratti di Famiglie Novesi della Parrocchia di San Nicolò in Novi Ligure – Tortona, Tipograzia San Giuseppe, 1966): «La provincia serba tesori d’arte nascosti. Ricordo la meraviglia di un grande architetto amico, Giuseppe Pagano Potganic, quando, venutomi a trovare, tanti, tanti anni or sono, vide l’interno di S. Nicolò. Opera di altissima arte totalmente dimenticata, perché dovrebbe almeno, essere ricordata in qualche storia di architettura. Ma quanti «giudizi», in arte, sono e saranno da rifare?»

«Ne è autore l’architetto Ricca che fu emulo del Guarini e di Juvarra.
A mio parere personale, è una delle più belle chiese d’Italia, Roma compresa, e lo dicevo di recente all’amico rev.do Don Motta, ricordando una chiesa di Torino che «in apparenza» le assomiglia: San Filippo, in via Maria Vittoria, opera del Guarini e di Juvarra. Un raffronto tra le due belle chiese varrebbe un lungo discorso dettagliato e non è questa la sede più opportuna, né lo spazio consente.
La torinese San Filippo è più appariscente per le sovraccariche decorazioni culminanti nei pesanti altari laterali a colonne marmoree che quasi la “rimpiccioliscono”. San Nicolò è più severa, più sobria, più “grandiosa” appunto per la purezza delle linee architettoniche che ne fanno risultare l’assenza compositiva creando negli occhi del riguardante, divino miracolo delle proporzioni, un senso di spazio maggiore di quello che è in realtà. Tutto questo è suggerito dallo sviluppo del “dinamico” disegno architettonico quasi “ad uovo” della fabbrica, ben diverso, nei risultati, da quello quasi “rettangolare” e “statico” di San Filippo. Così le due Chiese, a mio parere, soltanto in apparenza si assomigliano, Dobbiamo ricordare che, nella vera opera d’arte, un quid che può sembrare trascurabile, una piccola aggiunta o variante, può essere “il tutto”. Il segno personalissimo ed inconfondibile dell’Autore».

Credo che il giudizio su riportato, dall’indimenticabile Amico e bravo artista Beppe Levrero, sia il più calzante tra quelli espressi da studiosi e critici d’arte – e non sono molti – che si sono interessati alla nostra San Nicolò.
Il sacerdote Lorenzo Motta (1876-1967), del quale ho sopra ricordato un notevole scritto storico-letterario, impreziosì la bella chiesa parrocchiale di alcune pregevoli opere d’arte, tra le quali mi piace ricordare l’aureo tabernacolo dell’altare maggiore e la Madonna della Strada, opera dello scultore Virginio Ciminaghi. La grandiosa ceramica è collocata sulla parete di fondo della chiesa, sulla destra entrando, e presenta una plasticità che colpisce per il vigore e la bellezza austera. Una piccola lapide, posta ai piedi della sacra immagine, reca la preghiera composta dallo stesso don Motta all’atto dell’inaugurazione: «O Vergine Immacolata, Figlia prediletta dell’Eterno Padre, Tu che nella fuga in Egitto hai tanto sofferto per amore del divin Figlio Gesù, proteggi, Te ne supplichiamo, i nostri cari nei pericoli spirituali e materiali della strada. Così sia.»
Ho vissuto in prima persona i mesi nel corso dei quali il sacerdote ricordato era andato maturando il progetto di affidare a Virginio Ciminaghi l’opera scultorea della quale è oggetto questo breve scritto. Don motta era entusiasta come un adolescente e contava mesi e giorni in vista del compiersi della fatica artistica ciminaghiana.
Il critico d’arte Carlo Pirovano, amico di Beppe Levrero, aveva veduto Ciminaghi all’opera nel suo studio, quando attendeva all’esecuzione della Madonna della Strada destinata a San Nicolò. A quell’epoca aveva steso una nota critica quanto mai valida ed efficace, che qui mi piace riprodurre.
«D’abitudine la scultura di Ciminaghi fiorisce intorno ad un nucleo fantastico primitivo per una serie lenta e misurata di sottili variazioni nelle superfici e nei volumi e indefessa limatura nella scorza materica offerta al soffio vivificatore della luce. La luce, questo ineffabile carisma dello spirito… in un’estenuata esasperazione dei motivi mistico-panteistici propri del tardo Simbolismo, il grande corifeo di tutta la scultura moderna italiana, Medardo Rosso, usciva un giorno in questa affermazione: “ Per me, quel che conta in arte è di riuscire a far dimenticare la materia, dissolvendola nella luce”. Purtroppo, invece, gli epigoni dell’Impressionismo sembrano volti totalmente, oggi, all’esaltazione cieca ed istintiva della materialità informe.
Tra tali opposte concezioni, acre soprattutto nei confronti delle mode attuali: perché instancabilmente si affatica alla ricerca di uno stabile equilibrio tra tanto contrastanti poetiche. Ricerca che sul piano formale si precisa nella costante connivenza di un robusto vigore strutturale sotto la patina di delicatissime modulazioni di superfici; vera tortura dell’anima, che solo nella lenta trasfigurazione dell’opera poetica trova una pausa, la quiete.
Era naturale che da queste premesse generali distintive della personalità ombrosa e meditativa dello scultore, traessero incentivo le sollecitazioni di certa problematica religiosa che già in tutto il complesso dell’opera sua si trovavano presupposte naturalmente: intimamente religiosa, infatti, è quell’assillante esigenza di equilibrio fra materia e spirito, che in altre parole è poi la generosa utopia (ma sarà poi veramente tale?) di vari umanisti quali il Cardinal di Cues e Thomas Moore.
Lo scultore ha già affrontato più volte, anche in dimensioni notevoli, la tematica liturgica; ora lavora a questa Madonna della Strada con immutato entusiasmo; ne verrà un’opera, è fuor di dubbio, di grande interesse.
Ai cittadini di Novi il prepararle una degna sistemazione nella bella chiesa di San Nicolò, che ha bisogno di una coraggiosa pulizia generale per rivelarsi pienamente nelle sue linee eleganti, rivelatrici di un’architettura di primaria importanza storica e stilistica.

* * *

Il voto formulato da Pirovano, trovava puntuale compimento con le opere di restauro interno realizzate dal parroco Ezio Gatti sul finire degli anni sessanta, mentre al ripristino degli esterni splendori provvedeva, negli ultimi anni ottanta, il sacerdote don Guglielmo Giani, con la collaborazione ed il generoso aiuto dei parrocchiano e della città. Oggi San Nicolò si può dire tornata alla sua primitiva bellezza, presentandosi stupenda nell’armoniosità e nella grandiosità delle linee architettoniche, che ne fanno l’edificio sacro più suggestivo tra i numerosi dei quali la nostra città mena vanto..

Egidio Mascherini

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