Sarà capitato chissà a quanti di voi, mentre siete alla guida del vostro veicolo, di passaggio fuori città in aree di campagna coltivata ed in pianura, magari nell’alessandrino o l’astigiano, e di avere un pò come l’impressione di immergersi in un quadro di Van Gogh: girasoli a destra e a sinistra, tutti con il “capo” rivolto verso l’alto oppure tutti ingobbiti, a seconda dell’altezza del sole. Già da qualche anno i coltivatori  dedicano almeno un po’ dei loro campi a colture che non siano mais. La conseguenza più evidente è ben visibile: alcuni panorami in regione sono cambiati e le fitte schiere di pannocchie verdeggianti sono state sostituite da mari gialli di girasoli, ma anche di soia.

Uno dei motivi che spingono i coltivatori a cambiare si chiama “greening”. È un meccanismo legato alla Pac, la Politica agricola comune, che l’Unione europea utilizzerà fino al 2020 per legare lo stanziamento di fondi a una maggiore alternanza delle produzioni. In parole povere, chi possiede più di dieci ettari per accedere ai contributi europei deve dedicare almeno un 5 per cento del proprio campo a una coltura diversa.

Nelle province sud-orientali del Piemonte, invece, si è assistito a un piccolo ritorno del girasole nell’Alessandrino. Già parecchi anni or sono il fiore tanto caro a Van Gogh era piuttosto diffuso. Anche allora, il motivo era squisitamente burocratico ed economico: in pratica veniva “premiato” di più. Finiti i bonus, si tornò al mais, che comunque garantisce rese maggiori.

Ultimamente sono tornati di moda il girasole, ma pure la colza e il ravizzone. Si parla di piccoli numeri rispetto alle coltivazioni più tipiche del Piemonte, che restano il mais e il frumento, però l’interesse dei coltivatori è in aumento. Il primo motivo è che comunque si tratta di piante che non impoveriscono il terreno e che anzi lo lasciano piuttosto fertile, dunque sono l’ideale per lasciarlo riposare rispetto ad altre produzioni più intensive.

L’altra causa che sta convincendo gli agricoltori è la nascita di un nuovo mercato, ancora piuttosto di nicchia ma comunque promettente. Molte aziende dolciarie, soprattutto le più piccole, stanno studiando con attenzione la possibilità di abbandonare il famigerato olio di palma. È un prodotto che da qualche tempo è finito al centro di un aspro dibattito tra chi è convinto che sia dannoso per la salute e che causi un aumento della deforestazione e tra chi invece ne sostiene la salubrità e l’eticità. Nel dubbio, qualche produttore di dolci sta valutando l’utilizzo di nuovi oli vegetali, a chilometro zero: sarebbero un po’ più costosi ma, garantirebbero comunque un valore aggiunto in più.

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