Uno degli elementi essenziali alla sopravvivenza dell’uomo è sicuramente l’acqua e, dove questa scarseggia, si utilizzano da sempre diverse strategie per raccoglierne quantità sufficienti atte a soddisfare le quotidiane necessità. A questo scopo, nelle zone collinari del novese e pure in buona parte del Piemonte meridionale si costruivano in passato profondi pozzi, detti localmente ‘pozzi a campana’ (o ‘a fiasco’ o ‘a damigiana’) a causa della loro forma.
Il loro scopo era principalmente quello di recuperare le acque di superficie, in massima parte quelle piovane e quelle derivanti dai disgeli (scuìsi o scuaìsi in dialetto arquatese), poiché il terreno costituito in larga parte da materiale tufaceo di origine vulcanica – e quindi poco permeabile – non consentiva all’acqua di filtrare facilmente e di formare copiose vene e sorgenti.
Per la perforazione si usavano pochi e umili attrezzi, come picconi, badili, punte, cunei, mazze, carrucole, corde, secchi. Ma la fatica era pari a quella del muratore e questo lo può confermare chi scrive che ne ha fatto diretta esperienza. Si iniziava con uno scavo circolare avente un diametro molto ridotto, che variava da 70 centimetri fino a due metri, dando così la possibilità di passaggio a uomini, attrezzature e a materiali di estrazione utilizzati per edificare la copertura dell’ingresso.
I periodi stagionali preferiti per tale attività erano la fine estate e l’inverno: scelte non casuali, dettata l’una dalla pausa agricola, e quindi dalla presenza di un terreno molto asciutto, l’altra dal gelo che bloccava le acque superficiali.
Tra i lavori che si facevano nel periodo invernale vanno pure ricordati gli scassi che si praticavano sul suolo per impiantare nuovi vigneti, e si arrivava addirittura a spalare la neve, approfittando del fatto che il tufo restava quasi sempre asciutto. Ora, proprio nel procedere all’allargamento della bocca del pozzo, si operava quando il tufo era più solido, più stabile e nel contempo più friabile.
Nella fase di scavo, importante era il taglio alle pareti per due motivi: primo perché si dava forma al pozzo, secondo perché veniva facilitato lo scavo al centro.
Il taglio era fatto con picconi più leggeri, forgiati e ben temprati: questa procedura si doveva eseguire in media una volta alla settimana per rendere la punta del piccone molto tagliente agli spigoli. Il non perfetto taglio dell’attrezzo era intuibile anche dal materiale che, ad ogni picconata, schizzava in viso. Allo stesso tempo, il taglio si doveva mantenere sempre più profondo rispetto alla zona centrale di circa 30 – 40 centimetri, poiché questo migliorava il dissodamento del materiale di centro, che avveniva invece con punte di ferro e mazze. Inoltre un abbassamento centrale avrebbe provocato una notevole instabilità del terreno, causando un pericolo per gli uomini oltre ad uno spreco inutile di energie. Soltanto nella fase finale dello scavo, veniva abbassato il centro, fino a formare un fondo concavo a scodella per un miglior recupero dell’acqua e per future fasi di pulitura.
Ovviamente la capienza del pozzo era proporzionale al previsto consumo di acqua e alle possibilità finanziarie del proprietario, anche se il costo della mano d’opera non era poi eccessivo. Tuttavia, in alcuni casi il lavoro veniva sospeso e solo a distanza di anni lo si portava a termine. Durante la fase di scavo, si rinvenivano strati di arenaria – posti a due o tre metri l’uno dall’altro – dello spessore che poteva variare da un centimetro ad un metro, in formazione tettonica con la parte alta orientata quasi sempre a levante o a sud-est. In alcuni casi lo strato era formato da blocchi ovoidali di varie dimensioni, piatti nella parte di appoggio e molto simili ai gusci di tartaruga. Nella parte inferiore, tra arenaria e tufo, si potevano rinvenire, seppure molto raramente, piccole falde acquifere.
Un’altra presenza era quella di fossili, in prevalenza marini, come molluschi, ricci, pesci, frammenti di squame, ma non mancavano tracce di legni, foglie, carbone. Qualche volta il nostro lavoro veniva sospeso a causa della presenza di sacche di gas tossico e carenza di ossigeno. In quel periodo le dimensioni dei pozzi potevano variare e i più grandi raggiungevano la profondità di 15-20 metri e un diametro oscillante tra i 5 e i 10 metri.
Sempre in collina si costruivano, per uso animale, piccoli specchi d’acqua a cielo aperto, chiamati peschiere o, in dialetto, semplicemente böge (= buche), che erano alimentate da acque piovane.
All’intorno si piantavano alberi, in prevalenza olmi, con la funzione di proteggere lo specchio d’acqua dai raggi solari evitando così un’eccessiva evaporazione. Quel tipo di albero veniva impiegato anche come frangivento per la protezione dei casolari, a causa della sua robustezza, metodo, questo, tramandato dai monaci del Medioevo, che avevano man mano affinato le loro esperienze in campo agricolo. Nei periodi di siccità, la scarsità d’acqua provocava forti disagi agli abitanti, i quali erano spesso costretti a lunghi percorsi con botti sistemate su carri trainati da buoi per rifornirsi presso altre fonti.
Nei primi anni del Novecento si costruirono anche pozzi di piccole dimensioni sparsi nei vigneti per utilizzare l’acqua al fine di irrorare le viti di verderame, di fronte alla comparsa della micidiale peronospera. Dopo il secondo conflitto mondiale, la costruzione dei pozzi si ridusse drasticamente, anche se nei metodi di perforazione ci furono migliorie, attraverso l’impiego della polvere da sparo, dei martelli pneumatici e dei verricelli. Tuttavia la causa preponderante della loro rarefazione fu il graduale ampliamento della rete idrica anche in collina.
Tornando un po’ alla storia dei nostri pozzi, non si può sottacere un altro metodo più tradizionale di scavo: quello adottato per il pozzo a cilindro. Questo tipo di pozzo aveva anche un diametro quasi uguale da cima a fondo ed era costruito per lo più in zone pianeggianti, dove le falde acquifere si rinvenivano più numerose, essendo il sottosuolo formato in massima parte da materiale terroso e ghiaioso.
A differenza dei pozzi a campana, per i pozzi a cilindro si arrivava alla falda nel più breve tempo possibile ed inoltre la si superava di qualche metro, consentendo all’acqua di raccogliersi invece che defluire. Va da sé che la cosiddetta camicia del pozzo, o rivestimento delle pareti, veniva praticata al termine della perforazione. Una curiosa nota storica riguardante il pozzo dell’ex monastero cisterciense maschile di Santa Serafia (o Seraffa oppure Saraffa) – tuttora utilizzato – la cui prima notizia risale all’anno 1191. Ubicato nel territorio di Gavi sul crinale della collina in cui corre il confine con Arquata Scrivia, diventò successivamente cascinale ad uso agricolo, di proprietà della famiglia Spinola Torlonia delle Colombare di Gavi.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso un abitante del luogo, il signor Giuseppe Repetto, nel recuperare un secchio caduto sul fondo, incuriosito dalla lunghezza della fune necessaria per quella operazione, ne fece una precisa misurazione e la profondità risultò essere di ben 56 metri. Questa eccezionalità fu ancora più evidente considerando l’epoca in cui il pozzo fu costruito ed il suo diametro medio di tre metri.
Alcuni testimoni raccontano che, durante una fase di pulitura, furono notate piccole gallerie laterali, scavate nel tentativo forse di rinvenire altre falde acquifere e che gli operai dovevano spesso sospendere i lavori a causa della mancanza di ossigeno, constatata attraverso lo spegnimento delle candele che portavano appresso. Durante le suddette operazioni furono rinvenute anche notevoli quantità di armi di epoca non accertata: si può pensare che il pozzo rappresentasse un ottimo nascondiglio per sbarazzarsi di un materiale che poteva dare troppo nell’occhio, considerato che il luogo era, alla fine del secolo XVIII ancora confine di stato tra la Repubblica di Genova e il feudo di Arquata ed anche che quella zona fu teatro di cruenti scontri durante le campagne napoleoniche del 1796 tra francesi e ribelli dei Feudi Imperiali, e nel 1798 tra giacobini di Carrosio e liguri contro i piemontesi e nel 1799 tra francesi e austrorussi al tempo della nota battaglia di Novi.
Tratto da un articolo di EDOARDO MORGAVI pubblicato su https://novinostra.acosenergia.it/