Il formaggio Montébore, un formaggio antico, il formaggio più raro al mondo, le cui origini si perdono nei secoli, prende il nome da un piccolo paese della Val Curone, sullo spartiacque tra le valli del torrente Grue e del fiume Borbera.
Un angolo del Tortonese (nel territorio piemontese che confina Liguria e Lombardia) ancora integro e poco abitato.

Il cartello stradale che indica la frazione di Dernice, MONTEBORE
Il cartello stradale che indica la frazione di Dernice, MONTEBORE

Il Montébore è un sopravvissuto, parla del passato, ha lottato per non conoscere l’estinzione, per non sparire dal mondo del gusto e della qualità.

Il Formaggio Montébore viene realizzato miscelando latte crudo: per il 70% vaccino e per il restante 30% ovino.
La cagliata, rotta con un cucchiaio di legno, è posta nelle formelle, rivoltata e salata. Estratte dallo stampo, tre forme dal diametro decrescente sono poste a stagionare, una sopra l’altra, da una settimana a due mesi.
La crosta inizialmente è liscia e umida e poi, con la stagionatura, diventa più asciutta e rugosa. Il colore va dal bianco al giallo paglierino. La pasta è liscia o leggermente occhiata, di colore bianco in varie sfumature.

Per secoli prodotto ed esportato verso Genova e la Lombardia, se ne era persa praticamente ogni traccia. Poi nel 1997 con il Progetto di Filiera Casearia della Comunità Montana Valli Curone Grue Ossona e Valli Borbera e Valle Spinti, approvato dalla Comunità Europea, si è cercato di “recuperare“ l’antico prodotto. Attraverso una accurata ricerca il Montebore è stato letteralmente “resuscitato”, grazie ad alcune anziane signore della zona di Montébore e Calvadi, le due frazioni del Comune di Dernice (AL), dove ultime depositarie della tecnica casearia tradizionale, avevano mantenuto il “sapere” dell’antica caseificazione.

Attraverso la loro esperienza e la collaborazione dell’Istituto Caseario di Moretta e della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, si è ricostruita la tecnica casearia che ha riportato questo formaggio all’antico sapore.

Grazie all’iniziativa di due giovani produttori, Roberto Grattone e Agata Marchesotti (fondatori della Cooperativa Agricola Valle Nostra), nel 1999 il Montebore, presentato al salone “Cheese” nella sua totale produzione mondiale di 7 forme, attira l’attenzione della stampa specialistica dei cinque continenti.

Scrivono che: «Il formaggio Montébore va conosciuto per amarlo, opportunamente stagionato, denuncia all’assaggio il sapore del latte ovino, anche se la percentuale di latte di pecora non supera mai il 40%.
Al naso, si percepiscono odori leggermente animali e un poco speziati.
In bocca, all’inizio della degustazione, è tendenzialmente latteo e burroso, mentre nel finale si sente la castagna accompagnata da sfumature erbacee
».

Si legge anche che «Il Montébore a tavola è perfetto come eccellenza da tutto pasto: fresco o stagionato gode della compagnia del miele di castagno e della melata, delle marmellate di arancia, della “cugnà”, la tipica marmellata piemontese a base di mosto d’uva, cui dona la piacevolezza del proprio gusto fine, delicato ma arguto. Ama le noci, i fichi, le ciliegie in agrodolce, l’uva rosata, scoprendo così una vocazione a tutte le stagioni della natura. Stagionato, condisce le paste ripiene, gli gnocchi, il riso con ​un’accesa armonia di sapido, di piccante senza sconsideratezza, elegante, discreto, profumato. Non teme accostamenti azzardati, sicuro com’è della propria compostezza: con pere caramellate piccanti di zenzero o peperoncino rivela un’anima insolitamente ardita; con “sbrisolona” salata di fave e mandorle si scopre un’anima stuzzicante, ama gli sformati di zucca, cui dona robusta sapidità, di carciofi, di zucchine, di cardi».

COME SI LAVORA? Si fa con latte crudo: trattato esclusivamente crudo (scaldato a 36° C), a cui viene aggiunto caglio naturale. La rottura della cagliata avviene dopo un’ora di rapprendimento e produce dei grumi grossi. In seguito, si attua una seconda rottura da cui si ottengono grumi più piccoli (della dimensione di una nocciola).
La cagliata viene quindi posta nelle formelle: messa a scolare nei “ferslin”, le tipiche formelle a forma di cilindro, di diametro decrescente.
Nel corso della mezz’ora successiva, le forme vengono girate 4 o 5 volte. Poi, si procede alla salatura manuale, rigorosamente con sale marino (storicamente siamo infatti sulla ” Strada del sale” ).
A questo punto, non resta che far riposare le forme per 10 ore circa in un luogo fresco e asciutto e, infine, tre forme dal diametro decrescente sono poste a stagionare, una sopra l’altra, da tre settimane a quattro mesi.

Ecco, una chiosa finale. Avrei voluto andare dove lo producono, per vedere dal vivo come lo fanno, perchè il profumo qui non si può sentire e nemmeno descriverlo senza averlo percepito.

Le informazioni ed alcune immagini sono tratte dal sito www.vallenostra.com

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.