Riproduco qui un articolo tratto dal sito https://www.lanuovabq.it/ e firmato da Tommaso Scandroglio
Il ciclista Luigi Malabrocca, nato 100 anni fa a Tortona, amava arrivare ultimo: aveva capito bene che primum vivere deinde vincere, incarnando alla perfezione il detto «Chi va piano, va sano e va lontano».
Un campione al contrario perché per lui l’importante non era vincere, nemmeno partecipare, ma arrivare ultimo. Stiamo parlando del ciclista Luigi Malabrocca, nato 100 anni fa a Tortona. In occasione dell’ultima tappa del Giro d’Italia che si è svolta ieri, vogliamo parlare di lui proprio perché arrivare ultimo era diventata la sua professione. Una carriera che è stata un’elegia degli ultimi. Malabrocca: già in questo nome sgangherato la sua vocazione a sfuggire al podio, per salire su un podio rovesciato. L’eterno ultimo.
Era un gregario nei Giri d’Italia al tempo di Coppi e Bartali. Finire ultimo era il suo destino: ultimo di sette fratelli e ultimo per due volte al Giro d’Italia. Ma quella maglia nera la esibiva con orgoglio, una maglia oggi abolita perché parrebbe, a torto, un marchio di infamia. Lui invece la maglia color pece se la teneva stretta, perchè era d’uso che l’ultimo classificato ricevesse i ricavi delle collette dai tifosi: salumi, bottiglie d’olio e mance in denaro. Gli sponsor se lo contendevano perché era diventato un mito al contrario. Dino Buzzati gli dedicò un racconto. Una maglia nera color oro.
Il Mala divenne nell’immaginario collettivo l’emblema di chi non ce l’ha fatta, il riscatto del perdente, la speranza degli sconfitti, la luce che da ultimo, è proprio il caso di dire, si scorge in fondo al tunnel dell’esistenza. Vinto, ma proprio per questo vincitore, una contraddizione che sapeva di balsamo per le ferite di molti italiani scampati alla guerra e in cerca di eroi.
Malabrocca se le inventava tutte per arrivare ultimo e così campare da ultimista e vincere non il Giro, ma la fame che in quei primissimi anni del dopoguerra era più nera della sua maglia. Si nascondeva nei boschetti, nelle scarpate, nei fossi. Una volta si calò in un pozzo vuoto. Un contadino lo scorse e gli chiese cosa diamine stesse facendo lì sotto. Lui serafico: «Sto correndo il Giro d’Italia». Uscito dal pozzo con disinvoltura affrontò Rolle, Pordoi, Campolongo e Gardena: il tappone dolomitico. Luisin poi forava apposta o per finta, si fermava al bar. Un genio che aveva capito che ci sono percorsi in discesa per primeggiare.
Ma era un lavoro duro, di precisione, perché non potevi sgarrare e arrivare quando volevi. Dietro a tutti sì, ma entro i tempi massimi. Ecco allora che il ciclista di Tortona divenne svizzero: due orologi al polso per tagliare il traguardo poco prima del gong finale. Nel 1949 gli andò male. In una tappa calcolò non correttamente i tempi. Infatti si fermò a lungo presso la casa di un tifoso che lo aveva invitato nella sua abitazione per mostrargli l’attrezzatura da pesca. Giunse all’arrivo «troppo» ultimo tanto che i cronometristi erano già sulla via del ritorno. Gli assegnarono il tempo del gruppo. La maglia nera sfumò e andò al collega Carollo.
Malabrocca, l’opposto del campione perché capo estremo di quella fila di bici che correvano verso il traguardo. Per lui la fuga era al contrario, staccava gli altri, ma a rovescio. Ad esempio nel ’46 riuscì a dare a Bartali 4 ore, 9 minuti e 34 secondi di distacco e, l’anno dopo, arrivò il capolavoro con Coppi: 5 ore, 52 minuti e 20 secondi di ritardo. Mica da tutti.
Non crediate però che il Mala non avesse gambe, cuore e polmoni per primeggiare. Vinse 138 corse di cui 15 da professionista. Ma Luisin aveva capito bene che primum vivere deinde vincere. Malabrocca, uno che aveva sposato per sani interessi la filosofia degli ossimori che comanda di correre piano e che aveva incarnato alla perfezione il detto «Chi va piano, va sano e va lontano». Uno che apprezzava più il tramonto che l’alba. Beati gli ultimi.