Ecco un breve racconto scritto da Benedetta de Vito per un concorso letterario friulano “Per le antiche vie”. Il racconto fu dapprima scartato, poi però fu scelto e letto ad alta voce, con accompagnamento di chitarra, durante la presentazione romana del Premio. Vi lascio alla lettura coinvolgente, come solito.

Il mio Friuli giovinetto

di Benedetta de Vito

Passavamo il Noncello, nel bacio del mattino presto, attraversando – la Lilli e io – il ponte di Adamo ed Eva, che collegava i campi piatti di quel Friuli mio antico a Corso Vittorio Emanuele. Si andava, io, piccola tutta quanta bionda e racchiusa nel futuro incerto, e lei, la Lilli, piegata in due dal peso del tempo, alta sulla nuca la crocchia di capelli sale e pepe, nera nell’abito di panno, a comperare il pane e, per me, gli omini di zucchero, un incanto, quegli omini dolci e colorati, che non avrei trovato mai più per le strade della mia esistenza.

Al ritorno a San Giuliano, sui nostri passi lenti, la nonna Stella, contava i panini e ordinava alla Lilli di preparare il pranzo e, già che c’era, anche la colla, di acqua e farina, che io usavo per fare i miei brutti collage, avendo però il pregio di tenermi occupata al pomeriggio, quando il manto della notte riempiva l’aria di presentimenti. “Comandi”, rispondeva la Lilli in un saliscendi di note che mi faceva venir voglia di mettermi sotto le coperte a dormire.

Lei, indossato il grembiale ricavato da vecchi strofinacci, spariva in cucina e tutto mio era il casolare rosa cipria, ampio di stanze e di segreti, che si apriva su un gran giardino prima e, oltre il cancello verde, su vigneti e, più in là ancora, sui campi di mais. Oh di cose ne avevo da fare, eccome! Prima, andar da Luigino, che era il figlio della Carolina e abitava nelle case coloniche, divise dalla proprietà della nonna da un filare di tristi cipressi. Lo chiamavo ritta sotto le verdi imposte di legno che parevan farmi la linguaccia, chiuse com’erano, a quell’ora del giorno.

“Luiginooooo!”, io.

Le imposte, battendo di qua e di là, sul muro, si spalancavano.

“Mi, go da studiar”, rispondeva lui e, con slancio, senza un saluto, richiudeva questa e quell’imposta e tornava, visto che era in pigiama, a dormire…

Mi consolavo alla Fontana fredda dove, nelle pozzanghere di acqua melmosa, andavo a caccia di girini. Ce n’erano in forma di testoline nere con la coda, che erano ancora pesci, e altri, con due zampette di dietro, nere pure loro, già anfibi: tutti quanti, quei cosini di carbone, erano già perduti, come me (ignara ancora), in una metamorfosi che dava sugo al cuore, nel gran fiume del mistero.

Partivo a freccia, via, di corsa, alle case bombardate, oltre i campi di mais. A volte, sotto gli alti fusti del grano americano, trovavo, nero come il peccato, il Toni, tutto preso, con le sue dita a zampe di ragno, ad arrotolare le sue sigarette fatte di barba di pannocchia. “Ce l’hai una casa? – mi urlava, drizzandosi in piedi – e allora sparisci, vattene a casa!”. La paura mi piaceva e mi metteva ali ai piedi. Correvo a scapicollo, nella delizia del vento che mi frustava il viso.

Ecco il cancello, il caco, il ciliegio: finalmente il portico dove, placide, sonnecchiavano, nell’attesa di me bambina, la mia bici rossa, la mia bambola di coccio, la carriola bianca. C’era anche il cane Pippo che, vecchietto com’era, dormiva sempre acciambellato sotto il sole. Ero a casa.

Un giorno, anzi un brutto giorno, la nonna, non so come, non c’era più e neppure la Lilli e neanche più le vacanze estive a San Giuliano. Il casolare, mi disse mia madre, era stato venduto a chi lo avrebbe restaurato e tenuto bene. Annuii, ragionevole.

Che cosa ci fosse da restaurare a da tener bene, però, proprio non lo capivo, ché il casolare di nonna Stella era, ai miei occhi bambini, più bello di Versailles e niente doveva invidiare all’Alhambra… Gli anni passarono al galoppo e io, come quei girini alla Fontana fredda, mi feci, nella metamorfosi che tutto rigenera in questo nostro mondo, donna.

Lavoravo, poiché il destino a volte tesse le trame a modo suo, nella redazione romana di un giornale che guardava a Nordest e spesso mi ritrovavo a scrivere del mio Friuli. A volte, nella sede bella della Regione, che guardava diritta in faccia Palazzo Chigi, dopo una conferenza stampa, mi fermavo a bere un goccetto di Tocai, a mordicchiar polenta e frico, e a mangiar tocchetti di Montasio, che, per me si chiamerà sempre e solo formaggio della nonna…

Quel Friuli lì, ufficiale, bellissimo nel suo coraggio, tra mare e monti, lo vivevo spesso, perché se c’era da mandar qualcuno dalla redazione, io ero sempre la friulana. Tornata in redazione, nello scrivere di Ardito Desio o del festival del cinema muto, mi perdevo nel ricordo, vivo, del Monte Cavallo e delle Prealpi, che facevano il girotondo all’orizzonte, quando, percorrendo la piana dove dormiva Pordenone, si andava a scampagnare a Marsure da certi amici della nonna…

Ma ecco come, per magia, il Friuli del mio fogolar tornò prepotente a farmi visita un pomeriggio di aprile di non so quanti anni orsono. Ero lì, nella mia stanzetta, mi pare, a buttar giù un’intervista a non so quale politico, quando il commesso all’ingresso della Sala Stampa, mi disse che c’era un certo tal dei tali che mi attendeva in salottino. Il nome non lo disse, né volle dirmelo, poi, il signore in questione, ma pericolo non c’era, ché il viavai negli uffici di corrispondenza di quei giorni, era da ora di punta e dunque andai.

Mi trovai di fronte a una taglia forte di uomo che recava in mano una busta bianca e un pacchettino. Di parole ne usò poche. Mi chiese se ero io, la Ester Ponti, e, saputolo, si sedette e mi consegnò busta e pacchetto. Poi, congedandosi, andò via, con l’aria di chi aveva pur svolto, e bene, il compito assegnatogli dalla piccola storia. Nella busta, trovai le foto del vecchio casolare di nonna Stella che era stato ora dipinto di rosso pompeiano e splendeva nella bellezza ritrovata. Nel pacchetto una bambolina – oh meraviglia, la mia di quando ero bambina! – fatta di foglie di pannocchia, sulle spalle una gerla piena di piccole pigne. Nient’altro. Solo una firma: Luigino. Il dono del mio Friuli giovinetto.

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