Novi e la peste del 1656-1657
di SILVANO MOTTI da NOVINOSTRA
La peste che quasi ad ogni quarto di secolo appariva nel Mediterraneo, si manifestò a Genova alla metà del secolo XVII. Tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1656 si avvertirono le prime avvisaglie della terribile epidemia che avrebbe mietuto, in città e nelle Riviere, oltre 70.000 vittime.
Quando sui primi cadaveri si constatarono i sinistri bubboni, le petecchie e i carbonchi, sintomi inequivocabili della malattia, si pensò sollecitatamente alle misure più adatte per circoscrivere la diffusione dell’epidemia. Non mancarono, circa il contagio, le congetture più strane che contribuirono non poco a diffondere il panico, quasi si trattasse di un’ineluttabile prova imposta dal destino, e a intralciare le misure adottate per controllare la virulenza del morbo.
Ci fu infatti chi ricercò le cause della malattia negli influssi, nelle congiunzioni e nelle combinazioni astrali più o meno malefici per la terra. Si accusò l’inclemenza della stagione in quell’anno singolarmente calda e afosa, succeduta ad un inverno assai freddo e ad una primavera particolarmente piovosa. Non si mancò neppure di ricercare una causa morale della sciagura, e si rimarcarono la rilassatezza dei costumi, la sregolatezza e la licenziosità della vita.
Il risultato fu che si perse tempo prezioso in discussioni inutili, e il male, favorito dalle circostanze, dall’ignoranza delle norme igieniche e dalle condizioni in cui si trovava la società in questo secolo, divampò in misura spaventosa come un incendio devastatore. Qualcuno, più saggio ed avveduto, denunciò una certa indolenza della classe dirigente nell’approntare tempestivamente adeguate misure sanitarie.
Sembra accertato che l’occasione del manifestarsi e diffondersi del contagio dovesse iscontrarsi in alcune robbe furtivamente sbarcate alla Foce da una nave proveniente da Napoli o dalla sardegna, luoghi a quell’epoca infetti. Le leggi peraltro prescrivevano che le navi provenienti da porti in cui la presenza della peste era solamente sospettata, dovessero sottostare alla quarantena in rada e sottoporsi ai controlli più rigorosi, e gravi pene erano minacciate ai trasgressori. Ma si sa che spesso il tornaconto personale persuade molti a ignorare le norme vigenti e le sanzioni che esse prevedono, per quanto possano essere gravi.
Non appena quel fatto venne accertato, fu messo in relazione con la comparsa dei primi casi di peste. Subito le pene furono inasprite, ma intanto l’epidemia si diffondeva indisturbata. Il Serenissimo Senato, riunito in seduta straordinaria, emanò un bando che purtroppo rimase disatteso: si ordinava di dare alle fiamme alcune navi genovesi e si prescrisse nel contempo la quarantena doppia per i loro equipaggi, per gli armatori e per i passeggeri. Si Attuò una specie di cordone sanitario che precludeva ogni commercio con Paesi sospetti e permetteva un più attento controllo della situazione.
Per poter ritrovare gli oggetti cui si era attribuita la responsabilità del contagio si promise la più ampia impunità a coloro che, in spregio della legge, li avevano trafugati, purché li facessero pervenire nelle mani di coloro che li avrebbero inceneriti. Avrebbero potuto servirsi del tramite di un confessore, per garantirsi l’anonimato.
Ma neppure la longanimità dei governanti sortì alcun effetto; un risultato, se ne ebbe uno, fu quello di dare alla vicenda un colore sinistro di minaccia incombente e fatale. La peste serpeggiò dapprima in sordina nei quartieri più poveri, poi entrò nei palazzi aristocratici, dilagando senza più freni per tutta la città.
Le autorità civili e religiose si mobilitarono allora per cercare di alleviare le sofferenze della popolazione colpita, rinunciando ai personalismi e alle questioni di competenza che spesso avevano turbato la convivenza dei vari organismi. Il Senato della repubblica era in pratica in seduta permanente per provvedere all’emergenza; l’Arcivescovo, cardinale Stefano Durazzo, offrì la più ampia disponibilità personale e la propria dimora per fronteggiare ogni evenienza. Scongiurò i parroci e i rettori della città e del suburbio perché aprissero ai malati tutti gli edifici del culto e si prodigassero nella loro assistenza.
Il lazzaretto rigurgitava di persone sofferenti e ormai in preda agli spasmi della morte e i famigliari degli appestati erano avviati in appositi luoghi ove rimanevano in osservazione. Oltre a Genova e alle Riviere, anche Novi e il suo circondario vennero colpiti dal morbo.
Le notizie relative ai luoghi di ricovero ci sono pervenute attraverso il volume Li Lazzaretti della Città e Riviera del MDCLVII, scritto dal reverendo padre Antero Maria Micone da San Bonaventura, Agostiniano scalzo, nato a Sestri Ponente il 5 settembre 1620 e morto il 7 giugno 1686 a Modone, nel Peloponneso, dove era giunto quale cappellano di una galea genovese inviata con flotta pontificia a combattere il pericolo turco.
Lazzaretto di Nove
Nove resta edificato a piè dell’Appennino sul principio della Lombardia; benchè sia soggetto al dominio Genovese, come anche tutte le Terre, delle quali s’è ragionato per causa de’ Lazaretti. Solo per mancamento di Vescovo non è Città, per altro in ricchezze di mercadanti, in nobiltà di molte famiglie illustri, in magnificenza di Chiese e Monasteri, in abondanza d’ogni sorte di merci, e in numero di popolo, può essere connumerato con le buone Città.
Entrò qui il contagio, quando hormai era estinto in Genova, con gran spavento di molti Signori, che vi s’eran ritirati per salvarsi, pure leggierissimo fu il danno in riguardo a quel che si temeva, havendo terminato con la morte di 22 persone. (…)
Tenteremo ora di tracciare un quadro schematico del piano organizzativo approntato per fronteggiare il male, piano che non rimase semplicemente sulla carta, ma che venne mantenuto in esecuzione per il lungo e funesto periodo di diciotto mesi (giugno 1656 – gennaio 1658).
L’alta direzione e responsabilità era del Commissario Generale del Lazzaretto. Aveva piena autorità e risiedeva in permanenza o nelle immediate vicinanze o addirittura nella prima entrata dell’edificio. Una scorta militare era a sua disposizione per mantenere il buon ordine. Ciò si rivelò assai utile sia per spingere i riottosi a compiere con diligenza il proprio dovere, sia per sedare anche con misure energiche i tumulti in simili occasioni.
La famiglia cioè il personale inserviente, indicato dal padre Antero come operai del Lazzaretto, e i ricoverati, dipendevano, quanto al governo economo, dal Rettore, il quale aveva anche l’incombenza della disciplina interna. Agli ordini del Rettore erano i Cappellani, il Medico, il Chirurgo con i barberotti, gli apprendisti e gli ausiliarii, lo Speziale, gli infermieri di corsia, il Provveditore di fuori, il Dispensiere di dentro o Monisioniero, il personale di cucina (cuoco, facchini, garzoni), gli addetti alla lavanderia e alla disinfezione (profulieri), le balie, i beccamorti e i fossori.
Il regolamento prevedeva si dovesse dare minuto conto degli infermi al Magistrato di Sanità, perciò, tanto dal Commissario, quanto dal Rettore, veniva giornalmente compilato un elenco comprendente il nome, il cognome e il domicilio esatto di ciascun ricoverato.