Siamo agli ultimi giorni, manca davvero poco, forse possiamo dire che contiamo le ore affinché finisca questo anno 2020. E vorremmo, un po’ tutti, guardare avanti con un maggior senso di ottimismo, o almeno di speranza al 2021. Ma, facendo un passo indietro, voltando lo sguardo ad un anno fa, ricordate ancora quali erano le vostre speranze, le vostre aspettative, le vostre voglie di cambiare pagina? Ecco, vi lascio ad una lettura. Chissà se vi ritrovate in questo racconto scritto in prima persona.
C’era una luna grande, rotonda, di latte e sogno, c’era un cielo ricamato di stelle e tanto pesante e profondo da parere addormentato, c’era la neve, scintillante, tutt’intorno, a ricoprire i dolori della terra, e c’ero io, affacciata alla finestra, che attendevo, come ogni notte di San Silvestro, il nuovo anno. Ogni tanto, in lontananza, udivo scoppiare un petardo e il rumoretto, incendiato di luce, sollevava un bagliore, danzava nell’aria e poi affogava nel silenzio d’argento dell’intorno. Un cane abbaiava infastidito. Alle mie spalle, nel salone caldo, avvertivo il caro sapore di festa. Qualcuno chiacchierava, altri ballavano, si mangiava, si rideva, una musica lontana accarezzava l’aria perdendosi in mulinelli laggiù. Sapevo che alla Mezzanotte ci sarebbe stato il brindisi, abbracci, baci, auguri e che, poi, al giorno dopo, l’anno ancora in fasce avrebbe srotolato i suoi giorni calzando le scarpe quotidiane dell’anno appena trascorso e sarebbe arrivato, già vecchio e stanco, col sacco pieno di fatti belli e brutti, nella sua breve vita, al traguardo, prendendo per mano il piccino che l’avrebbe seguito nel destino comune. E così via per i tempi a venire, in delizioso serto di rose e di speranza, di carbone e torrone.
E poi, d’un tratto, è arrivato il 2020 e nessuno, o almeno non io, si sarebbe aspettato un cambio così repentino: il mondo rotolato al contrario, la luna per terra, in cielo le scarpe vecchie del 2019 ancora da consumare. All’improvviso ci hanno chiusi in casa, ci hanno messo una maschera sul muso, ci hanno detto che abbracciarci è sbagliato, che stare insieme è “assembramento” (una parola che ha in sé un arcaico senso di peccato mortale…), ci hanno tolto la Santa Messa di Pasqua. Ci hanno detto che sarebbe passato presto, che ci voleva pazienza e che tutto sarebbe finito in un batter d’ali di farfalla. E invece siamo ancora qui, chiusi in casa, con la maschera sul muso, ad ascoltare, giorno dopo giorno, le litanie dei telegiornali tutti uguali, con cifre sparate (e mai controllate con carte e documenti), con minacciosi proclami di questo o quel virologo, con continui cambi di rotta, apriamo, chiudiamo, aspettiamo, non si può fare questo e non si può fare quello. E con la minaccia di multe salate per i trasgressori, Per chi, cioè, vuole respirare senza mascherina e sgranchirsi le gambe: pericolosi criminali…
E i frutti di questo giro di vite che strozza l’amore (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”, come stupendamente scrive Dante nel suo “Paradiso”) si sono presto visti. Occhi torvi che si affacciano dal balcone della mascherina, nonne che hanno “paura” dei nipotini, ed ecco, oddio non posso crederci, ridiventar vivi e veri gli “untori” di manzoniana memoria! Ora è “colpa” dei ragazzi che fanno un poco di vita notturna, ora dagli a chi torna dall’Inghilterra, e poi è colpa dei bambini che sono portatori sani del virus. In un balletto di odio che ricorda, per davvero, il processo agli untori di cui racconta Alessandro Manzoni nella sua “Storia della colonna infame”. Eccoci, dunque, nel 2020 , che non è l’anno del Covid 19, come si potrebbe pensare, bensì l’anno dei frutti amari di un mondo che ha dimenticato l’amore e il suo Motore Eterno, cioè Dio, nello splendore radioso della Trinità. Io, che sono credente e che vivo nella grazia del Signore, so benissimo che quando Lui chiama, mascherina o non mascherina, Covid o non Covid, bisogna andare. Andrò io e tutti perché, anche se si fam le capriole tra le nuvole per nasconderlo, la morte c’è, è l’altra faccia della vita e tutti quanti, ricchi, poveri, belli, brutti, un giorno saremo da lei cullati e portati via…
Ma ora basta con la filosofia e torniamo a quella sera di luna e neve in cui me ne stavo affacciata alla finestra mentre dietro di me si faceva la cagnara della Mezzanotte. Ero lì, dunque, ancora ragazza, in una bella villa di Cortina d’Ampezzo a festeggiar con altri, ragazzi come me, l’anno nuovo e me ne stavo un poco ritirata, da parte, come facevo a volte quando il chiasso mi portava lontano dal sentiero alpino interiore che seguivo, ignara allora e che mi ha condotto sempre per la via. Mi sento chiamare, mi giro e mi trovo naso a naso con un famoso giornalista di nome Luca (il cognome lo tengo per me). Era un uomo di una certa età per me di allora, magro, con il naso aquilino, i capelli a cespuglio, un niente di ché ma interessante. Mi chiese soltanto se avevo le calze rosse. Sorrise al mio diniego e mi disse che così sciupavo la magia del Capodanno e che ci avrebbe pensato lui a correre ai ripari. Mi fece promettere che lo avrei aspettato. Promisi al vento. Sparì e io, girata verso la luna, ritornai ai miei pensieri, mentre già qualcuno invitava a uscir fuori, a correre nel buio, a fare qualche fuoco d’artificio, a fare a pallate di neve. Uscii anch’io, dimentica della promessa di Mezzanotte. Poi fu solo freddo e risa e abbracci e casa. Il giorno seguente, scarponi ai piedi e sci sulle spalle, trovai sulla porta di casa un paio di calze rosse…
Non so che fine hanno fatto le calze di Luca. Ma esse, così semplici nel sogno che contengono di speranza viva per un futuro migliore, sono il mio augurio per l’anno che verrà. Che torni cioè a essere un anno come ce ne sono stati tanti sui nostri calendari, con il suo bel cesto di cose belle e brutte, con la luna in cielo, la neve intorno, il respiro della primavera nelle gemme verdi che sbocciano quando arriva il tempo suo. E poi l’esplosione dell’estate, nelle spighe d’oro che biondeggiano sui campi di sole. Che poi venga l’autunno con i suoi colori d’arancio e oliva e che l’Inverno riporti il dolce Bambinello, il Presepe, e anche il Capodanno. E che, come feci io con le dolci calze rosse di Luca, possiamo dimenticarci delle mascherine, degli assembramenti e di questo 2020 a capo in giù, segnato dal mondo alla rovescia raccontato da Giuseppe Cocchiara nei suoi bei libri sul Carnevale…
di Benedetta de Vito