Ecco, proviamo un po’ ad alleggerire questo periodo con una lettura un po’ più divertente. Ci avete già pensato che anche i topolini hanno i loro territori ? Ecco allora un racconto che arriva fino in Sardegna, per sorridere un poco tra territori rossi e arancioni.
C’è, a mano sinistra della villa sarda che ho ereditato da mio padre, un vecchio garage che per serratura ha una pietra di granito da piazzare contro i portelloni smangiati dal tempo e che contiene un arlecchino di cianfrusaglie lì da secoli a far da luna park a scarafaggi e topi. Dietro un’inutile vetrata, ecco apparire come relitti di naufragio, i resti mangiucchiati dagli anni della vita nostra, moltiplicata per sette ovvero quanti eravamo, prima che mio padre facesse le supreme valigie. Sulla parete sinistra, decrepiti barattoli di vernice secca, utensili arrugginiti, colle indurite, pennelli inamidati dal colore, rastrelli senza rebbi, vecchie palette, secchielli bucati, cestini smagliati. E, sulla destra una cascata di seggiole rotte, a zampe in su, tavoli con tre gambe, taniche sporche, seggiolini, lettini, girellini per i bimbi che furono i nostri figli oramai grandi e all’università.
Quando, dunque, mi ritrovo tra il mare e il cielo di Cala Girgolu, cascasse il mondo, io il naso là dentro ce lo ficco anche perché vi custodisco in un cestello rosso del supermercato i miei attrezzi da giardinaggio: cesoie, guanti, piccozza e anche i sacchi trasparenti per raccogliere le ramaglie. E nel buio, gli occhi fanno il giro panoramico sulle masserizie e ogni tanto, pescano qualcosa che accende lumi nel passato oppure che, nel presente, può diventar qualcosina di grazioso. Quest’anno, dunque, come sempre, eccomi nel bel giorno fresco ancora chiuso nell’ovetto sacro, nel garage di cui ho detto Giro lo sguardo di qua e di là e d’un tratto, dietro a una vetusta lavatrice di colore giallo, vedo un bel tavolinetto di bambù d’un bianco stinto, rovinato sì, ma ancora decente nel rotondo suo intatto. Splende, mi pare, come un giglio del retro spiaggia. Mi chiama. Così spostando gli intralci, diventa mio. Noto che nel giro suo candido c’è un ventaglio color liquirizia di bisognini di topo. Vabbè, che fa, con un gran soffio, lo sporco non c’è più e il tavolo sembra dirmi grazie, evviva e dove mi porti? Lo porto sul retro dove, in un angolino che pare ritagliato apposta per i miei attacchi d’arte, mi metto all’opera. Prima gli faccio il bagnetto, poi dai con lo stucco per rattoppare i buchi e le vene aperte. Subito dopo il pennello danza di qua e di là, e il tavolino si ricopre di neve. Bello, lo ammiro da lontano e poi, pensando e ripensando, mi concentro sulla decorazione. Forse un girotondo di conchiglie? Scarto l’ipotesi, temo la polvere. Mi viene in mente, allora, che nel garage delle meraviglie storte c’è uno scatolotto di sigari toscani pieno di piastrelline verdi lucenti che devono essere di quarzo. Ce ne sono anche di blu lapislazzulo e di bianche. E così torna a spostar la pietra, apri ante e vetrata e le tessere del mio personale mosaico casalingo sono già tutte quante immerse a lavate in una bacinella. Al sole poi si asciugano in delizia mentre io trovo, tra le cose mie, una formidabile colla americana con la quale sono solita, a casa mia a Roma, far del bricolage.
In due giorni, con l’aiuto del caldo sole di Sardegna, e due mani di vernice, il gioco è fatto, il tavolino, con il suo bel volant verde di piastrelle quarzoline, appare come nuovo, lucente e ristrutturato nella sua elegante rinascenza. Ecco, è pronto per prendere il posto suo, regale, sul terrazzo. Tutta contenta lo mostro al marito che snasa, gira lo sguardo e torna a farsi i casi suoi, con muso nel computer. Poco male, mi dico, e stira e ammira. E mentre sono lì che mi rigiro nel cuore il tavolino nuovo, in una nuvola rosa, ecco guizzar fuori dalle pietre del muretto che fa da confine al terrazzo un acconto di topolino, lungo la metà del mio indice. Salto su: “Un topolino!” e lui, chiamato in causa, dribbla di qua e di là e scompare in rapido guizzare sotto il sedile in pietra che ha per cuscini tante belle mattonelle rosa con su un saltellio di pesciolini. “E’ lì, lì sotto!”, grido, indicando al marito il punto esatto in cui si è immerso il mio nemico. Non passan due secondi che il topolino intrepido ritorna alla ribalta e mi par che giri sempre tutt’intorno al tavolino nuovo. Ma forse sogno non so. Con la scopa lo inseguo a battere in terra per spaventarlo a morte. E credo di esserci riuscita perché le ore scivolano via, scolorandosi nella sera e il nostro topino coraggioso non si vede più.
“Nulla”, mi dico e mentre l’arancio del tramonto colora la baia e Tavolara indossa il suo bel pigiamino rosa e celeste, è ora del desinare e del riposo.
Il giorno successivo, scendo che il sole non si è ancora arrampicato sull’aldia bianca. Vado spedita verso il tavolino e lo trovo spruzzato di popolette nere. “Di nuovo lui – penso e un poco rido perché il coraggio, sotto sotto, lo ammiro anche in un roditore. Una soffiata e via, nel rintocco delle ore che si inseguono nel giorno. Tanto per vedere che succede, intanto, sistemo il tavolino all’altro angolo della casa lì dove il terrazzo confina con il terrapieno che conduce al vecchio garage da cui il tavolino è uscito e dove tengo lo stendino del bucato.
Tutto è tranquillo nel primo pomeriggio del caldo dopopranzo. Io devo scaricare la lavatrice e così, abbracciata ai freschi panni, mi metto all’opera sotto il solleone, con l’occhio buttato al tavolino. “Oddio no!”, grido è di nuovo il topolino che da un buchino di tra il pietrame mi guarda in segno di sfida. Il tavolino è lì vicino e mi pare quasi che sia quello il campo di battaglia. “Via, scio!” strillo e lui si tira indietro per poi ricomparire con quel suo musino nero e le zampette a spillo. Continuo ad appender federe e costumi, ma all’occhio mio attento non sfugge il nero puntino che è ricomparso in segno di sfida, un topolino con un cuore di leone. E ora mi giro, nel silenzio, ci guardiamo assorti. I suoi occhi di pepe mi paiono dire: “Perché, perché hai preso la mia casa? Non hai capito che era mia, mia!”. E penso alla casa mia che tanto ho desiderato al punto da barattare per essa con i fratelli la casa natia di Roma.
Non strillo, non grido. Demitto auricolas. E mentre lui scodinzolando scompare tra l’erbe io, afferrato il tavolino, apro i portelloni e la porta vetrata del garage e rimetto, mio malgrado, il bel tavolino bianco in quel sudiciume di carcasse. Hai vinto, mi dico, mio coraggioso topolino. Ti restituisco la tua casa ristrutturata e ridipinta e anche un pochino bella con quel bel girotondo verde tutt’attorno al disco bianco.
Il pomeriggio trascorre tra bagni e sole e così scende la notte, col suo bel manto nero trapunto di stelle. Il giorno dopo mi trova sveglia e grilla, sicura che il roditore non si vedrà e vincitrice, un poco, a modo mio. Sì, una parola. Mentre sorseggio il caffè davanti al mare d’argento illuminato dai bagliori del sole nascente, eccolo ricomparire e sembra assai agitato, il signorino.
“Che c’è”, gli domando, muso a muso. E lui, pur muto, par rispondermi che la casa nuova com’è, e linda e pinta, non gli piace punto e che dove sono nata, io, se non conosco i gusti dei topi e che posso riprenderla anche subito per quanto gli importa.
“Oh che screanzato e irriconoscente!”, esclamo e corro a prendere la scopa per inseguirlo e spaventarlo un poco. Ma è tutta scena perché, nel segreto, sono in giubilo: ho vinto il tavolino mio e il suo trasloco. Ma quando la donna delle pulizie mi chiede se deve portar la colla contro i topi le dico nossignore qui quest’anno non se ne sono visti proprio e lei: “Strano perché su quel tavolino nuovo lì, quello appena ridipinto, ho visto come un pizzico di cacchette nere…”.
di Benedetta de Vito