Dice un proverbio popolare che se i “Giorni della merla”saranno freddi, allora la primavera sarà bella; se sono caldi, la primavera arriverà in ritardo. Che fare allora? Vedremo un po’ quel che sarà!

Ne ho già parlato in un articolo un paio di anni fa e qui lo ripropongo.

Ma qui di seguito vi lascio una bella lettura, in attesa di sapere come saranno i prossimi giorni.

Nella villa romana, accucciata sotto l’Aventino, dove vivevo sola, bambina, con genitori e fratelli, veniva tutti i giorni a far le pulizie (ma per mia madre erano al gerundivo latino, le faccende) la Mimma che di cognome faceva Toto. Aveva un cuore grande, la Mimma, e pochi capelli neri, in magri riccioli sul collo,  che, non so perché, teneva a bada con un cerchietto di velluto nero. Aveva il viso magro, le gambe secche e il seno generoso delle balie che erano giunte, nell’Ottocento, a Roma per nutrire i pupi romani.

Per me era delizia vederla, nel suo bel grembiale bianco, all’opera, in danza da un piano e all’altro, con scope che eran caducei, e pure in cucina sapeva mischiar meraviglie. I panini fritti erano d’oro con cuore di mozzarella fusa, gli gnocchi di patate al sugo rosso unici in perfetto sposalizio di farina e patate. Aveva un rimedio per ogni cosa. Contro il mal di gola occorreva dormir con la calza usata il giorno prima e messa a legaccio attorno al collo e se il pane era vecchio lo cacciava sotto un filo d’acqua e poi in forno e lo restituiva come appena uscito dalla bocca ardente del fuoco in panetteria.

Per me, la Mimma, aveva un occhio e il cuore di riguardo perché anche lei era nata, come me, nel giorno dell’Immacolata concezione. E io, con lei, trascorsi molte e molte ore, al mattino, quando, ebbi una misteriosa quarta malattia, che mi tenne a casa quattro mesi da scuola. Per la Mimma, insegnare era “imparare” ed era verbo transitivo con il complemento oggetto e il verbo al complemento di termine e mozzo nella coda.

“Ti imparo a stirà”, mi diceva ed era come se mettesse me – proprio io, piccola io – al centro dell’azione e lei, spettatrice, dall’alto mi guardasse mentre apprendevo, diciamo così per osmosi da lei, che nulla, però, insegnava. Imparavo, ho imparato. E mi raccontava le storie del paese suo che si chiamava Campoli Appennino ed era in Ciociaria, alto sul Parco nazionale dell’Abruzzo. Un giorno, poiché eravamo proprio a fine gennaio e io tossivo ancora, mi raccontò dei giorni della merla.

E come lei me lo ha raccontato lo riporto. Mi disse, dunque, che la merla, nel senso della graziosa signora del merlo (color grigio polvere lì dove lui è lucido di penne nere) non c’entra un bel nulla e che quei giorni si chiamano così perché è allora che sbocciano, sulle colline aride e invernali, le avanguardie delle primule. E che “merla” altro non è che primula in dialetto, una parola, diciamo così, come una vecchia pantofola ciancicata dall’uso. Mi spiegò anche che, per i paesani, i giorni della merla, pur freddi, freddissimi, erano speranza che la primavera, nel suo bel vestitino color giallo primula, sarebbe presto giunta a rinverdir le erbette, a richiamar le rondini e a far fiorir le rose.

E ora, lasciamo per qualche minuto la Mimma a fare i casi suoi, e in balzo sono in Sabina, che è, per motivi miei, terra per me d’amore. E’ gennaio, fine gennaio, e sono dalle parti di Ginestra, un nome che splende come un fiore d’oro tra le belle, colline sabine dove gli ulivi, in filari, fanno da collane ai colli. Cammino nel gelo che morde e tutt’intorno è color del fango, per terra paciughi di foglie d’autunno, umido il sentiero.

D’un tratto, e chiamo mio marito, il cuore palpita e s’accende: su un terrapieno scosceso, biondeggiano in grazia tante primule che sembrano chiamarmi da lontano per annunciarmi la buona novella, che cioè, sotto la neve, il seme è vivo, la vita rinasce in eterno fluire, E che questo era il segreto che i sabini regalarono ai cugini romani nel Dio Quirino, che ancora oggi si ricorda sul Colle più importante di Roma, il Quirinale, lì dove sedettero prima i Papi, poi i Savoia e ora il Presidente della Repubblica, che è la carica più alta del nostro povero Paese.

Presto, caro lettore, è ora di far di nuovo due bagagli e di seguirmi, se le andrà, in una gita mia di bimba a Campoli Appennino, nel paese chiacchierino della Mimma. Era una domenica di maggio, il cielo dipinto d’azzurro, il sole come un paolo d’oro, e il paesello si animò, curioso, al nostro arrivo. Le case sorridevano alla famiglia romana giunta dalla Capitale. Una casetta d’ombre e di scale ci offrì riparo e riposo. Poi vennero le visite. Primo tra tutti, il fratello della Mimma che era tale e quale a lei solo in forma maschile. Lei era  Mimma Toto e suo fratello era Salvatore Toto e quindi Totò Toto.

Lei, da noi a tener la casa linda, lui (però io non lo avevo veduto mai) veniva a volte e a volte no per tagliare i vestiti su misura del papà, ché Totò era il sarto del paese e come tagliava lui le pezze non ce n’erano mica tanti, come diceva mia madre che, come si sa, di stoffe era maestra e anche di stile. Totò Toto, mentre gli altri chiacchieravano dabbasso, mi portò in alto, in alto e affacciata al balcone che come tutti i balconi che si rispettino aveva vista sul panorama, e mi indicò, laggiù, il Parco nazionale dell’Abruzzo e che non lo vedevo , mi chiese, l’orso bruno? Non c’era l’orso, figuriamoci, ma io lo vidi o forse lo sognai, quell’orso, che ancora oggi è parte del mio sogno di Campoli Appennino. 

di Benedetta de Vito

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