Oggi, 19 marzo, è la data in cui si festeggila festa del papà;  varia da Paese a Paese ma sicuro è che questa ricorrenza è una delle più sentite dell’anno. Qui in Italia si festeggia il giorno in cui si celebra anche la figura di san Giuseppe.

Lascio il racconto e le parole ad uno scenario che si ambienta nella Capitale.

Nel giorno di San Giuseppe, il Rione Monti, dove vivo – e che è Primo rione romano – si svegliava nella messa dedicata al padre putativo di Gesù celebrata nella chiesina di San Lorenzo in Fonte, incastonata, come casa tra case, nel rettifilo di Via Urbana. Una chiesa-casa che, infatti, fu l’abitazione, ai tempi del martirio, del centurione che arrestò il diacono spagnolo e che da lui fu miracolosamente convertito.

Rione Monti

Finita la santa messa ecco i falegnami del Rione, Giuseppe, Donato e gli altri (che chi uno chi l’altro han fatto lavoretti a casa mia), in pettorina color cielo con su scritto “W San Giuseppe”, arrotolandosi le maniche, prendevano la gran macchina del Patrono e, sollevandola più in alto, al grido di viva San Giuseppe, davano il via alla processione, nel filo di serpente di devoti che li seguiva. Tra gli altri, io pure, a volte con la mia amica Graziella che è monticiana per matrimonio e mia compagna di messe domenicali. Giriamo sulla sinistra per Via Panisperna, poi giù diritto fino ai Serpenti, il Corso dei Monti, per lambir la Chiesa della Madonna dei Monti e ritornar, seguendo via Leonina, al punto di partenza.

E intanto, tra un passo e l’altro, snoccioliamo rosari di Ave San Giuseppe, e cantiamo, mentre dalle case si affacciano alle finestre i curiosi, alcuni – rari – gettano giù i drappi – e altri ancora si uniscono al corteo. Mentre i turisti, che allora popolavano il Rione, scattavano fotografie e facevano piccoli video come souvenir di una devozione antica che regalava il palpito della romanità cattolica al viaggio italiano. Oggi, e per due anni di seguito ormai, la processione è “assembramento”, una parolaccia, e non si fa più. Così il Rione resta muto, senza il suo Patrono, senza il cibo del Santo Spirito che, per chi crede, è quasi più nutriente del pane e prosciutto. Il gran San Giuseppe, vestito di viola e di marrone, resta nella chiesina dove, in una cappellina sulla destra, dove sono solita restar sola in preghiera, potrete trovare anche una statua di Cristo incoronato di spine e chissà perché porta uno scapolare trinitario…

Così, senza processione, e un poco mesta, eccomi a festeggiar il Santo che è il padre nel mondo di Gesù e che è l’esempio per tutti i padri di ieri e di oggi. E siccome quelli di oggi li vediamo tutti, più o meno, come sono, io parlerò di quelli di una volta, che, come ho scritto, non uscivano di casa senza essersi messi in testa un bel cappello borsalino e che erano di poche parole, rare coccole, eppure presenti, come un argine nel caos. Chiudo gli occhi, serro la mente e mi vedo ragazzina, forse già alle medie. Ho gli stessi capelli di ora, lunghi, spinaci come si diceva, e lo sguardo a punta.

Siamo a tavola, una famiglia numerosa come s’usava allora e nessuno osava alzarsi prima del tempo né, se bambino, prender la parola quando parlavano i “grandi”. D’un tratto, mio padre, si gira verso di me e mi domanda: “Tu, Benedetta, che classe fai?”. Rispose per me mia madre perché era lei a tenere il calcolo di tutti e cinque, dei voti, delle maestre, rette da pagare, divise da comperare, insomma tutto il corredo di aver figlioli. A pagare i conti, che mia madre si premurava di temperare al massimo con salde economie, era mio padre. Insieme, in tandem, ci hanno tirato su benino, con i guai che hanno tutti, ma non troppi: un ingegnere, un medico, una storica dell’arte, un agronomo e ultima io.

Mio padre a volte alzava anche la voce e, nel farlo, diventava rosso paonazzo e, alterato, ruggiva, “Mi domando e diko”, come se il dico fosse scritto, appunto, con una cappa e lui usasse i due verbi come un coltellaccio per segnare con il pennarello rosso le nostre mancanze. E mi faceva paura, una sana paura che mi frenava dal far cose pericolose per me eppure vagheggiate dal mondo intorno in tentazione e fremito. Se diceva “stupida” lo diceva facendo diventare la “s” una “sc” e la voce si armava di un’accetta invisibile che mi tagliava le parole in gola. Tacevo. Imparavo a tacere, invece di proferir tante corbellerie come ne sparano oggi in televisione. Imparavo io, come aveva imparato lui.

Bambino, vestito già da ometto, veniva portato da suo padre a far bella figura dagli zii, senatori del Regno e uno ministro dei Lavori pubblici. I due zii, barba, baffi, occhiali, rigorosi, alti, solenni, un dagherrotipo ottocentesco, lo interrogavano sui voti presi a scuola. Poi, il piccolo prigioniero veniva liberato ed era tempo di correre dalle zie, sorelle anche loro, che gli davano i dolcetti. Tutt’e due, ricordava mio padre, avevano i capelli allacciati sulla nuca, bianchi come meringhe, e intorno al collo un laccetto nero…

Questi, in pennellata impressionista, erano i padri di una volta. Quelli di oggi, che, poveretti, non sanno bene dove stanno in piedi (perché esser maschio oggi è difficile, come scalare l’Everest in pantofole) vanno un poco a tentoni, tra l’abbaiar del politicamente corretto. Tanto per cominciare, si offre ai ragazzi un modello ambiguo, efebico quasi, depilato, elegante, un pelo sbarazzino, mentre i maschi dei miei tempi puzzavano di sudore, andavano di rado dal barbiere e mai a fare shopping. Rido tra me ripensando a una nursery rhyme che recitavo da piccola: “What are little boys made of? Frogs and snails and puppy dog’s tails. What are little girls made of? Sugar and spice and everything nice. Differenza di genere, un tempo si imparava da piccoli, con l’abbicci… Vabbè, sento una vocina che mi controbatte: “Anche i ragazzi di oggi portano il cappello, che mi dici degli hipster?” Oh quelli non sono cappelli, rispondo, ma un vezzo a copricapo, non severa sudditanza al Divino, ma segno di appartenenza ad una tribù e anche, cartolina di cattivo gusto.

Secondo poi, un papà non deve mai e poi mai né mettere in riga, né alzar la voce, né correggere, né, per carità, sgridare. Sono tutti amiconi i papà di oggi e sanno sempre, per dir così, che classe frequenti e anche i voti che prendi. Le mamme, oramai tutte lavoro e lavoro, invece, a volte non lo sanno. E in questa confusione di ruoli, perduti, i figli crescono non sapendo bene quale è il posto loro nel mondo e dove trovare conforto e forza. E a volte, spesso, si perdono. Chi, chiuso in casa, chi a rovinarsi con la droga e chi a inseguir altri fantasmi. La via per ritornar a mettere giusto il sale sulla pietanza è quello di tornar a vivere nella Santa Legge del Signore che ci ha fatti maschi e femmine per stare insieme e camminare in armonia. Dove c’è una mamma vera, c’è anche un padre vero e i figli, salvo naturalmente portar la croce loro, sono beati e possono mettere radici.

di Benedetta de Vito

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