Nella giornata di ieri si celebrava l’equinozio di primavera – che quest’anno cade il 20 marzo – dando il via alla stagione dei fiori, del bel tempo e delle giornate più lunghe rispetto alla notte.
L’equinozio di primavera (così come quello d’autunno) è quel momento specifico della rivoluzione della terra intorno al sole in cui i raggi solari cadono perpendicolari all’asse di rotazione della terra. In questa giornata, che quest’anno cade il 20 marzo, l’emisfero settentrionale e meridionale sono raggiunti dai raggi del sole con la stessa inclinazione. Questo fenomeno, avviene, due volte l’anno, in primavera e in autunno, e quando nell’emisfero settentrionale ci sarà l’equinozio di primavera, in quello meridionale inizierà la stagione opposta, cioè l’autunno. Il primo giorno di primavera, oltre a introdurci alla stagione delle fioriture, segna un momento importante perché da questo momento le giornate iniziano a essere più lunghe e le ore di giorno superano quelle delle notte. Il giorno esatto dell’equinozio (quindi oggi 20 marzo), invece, il giorno e la notte si equivalgono avendo la stessa durata. È lo stesso nome “equinozio” che si porta dentro la spiegazione di questo fenomeno dato che, in latino, “aequus” significa “uguale” e “nox”, “notte”, quindi il momento in cui la notte e il giorno sono uguali.
Ed ora una lettura piacevole, che sa di primavera
Quando l’autunno, stanco di sole sardo, colorava di giallo ocra e d’arancio le foglie del cachi solitario e i piccoli soli del calicanthus cominciavano appena a fiorire riempiendo l’attorno d’incanto profumato d’oriente, quando ero davvero piccola, arrivava da Pordenone, a bordo del Romulus (perché allora anche i treni avevano nomi gentili e non neutri numeri e cifre), la nonna Lisetta per trascorrere con noialtri, i suoi unici nipoti romani, un ritaglio di ottobrata all’ombra dei Fori. Per me, era festa grande e lo stesso, credo, per i fratelli. Dei lunghi pomeriggi trascorsi, muti, assieme, ricordo il libro delle vite dei Santi che lei leggeva avidamente, senza togliere il naso lungo dai fogli. Li odorava quasi, quei fogli, beandosi delle aureole, tante, che per me erano altrettanti punti interrogativi. Se anche mi diceva un nome, un nome soltanto restava per me, mentre per lei, bastava dire – che so io -Teresa, ed ecco dipingersi un intreccio di avventure e di estasi e di cose segrete da non rivelare. Uno scrigno silente che si portava, gelosa, dentro e che io, soltanto tanti anni dopo, dovevo aprire e custodire per sempre nel cuore…
Diceva, la nonna, che era importante conoscere il Santo del giorno, che ne era, per così dire, il patrono, e mi insegnò che il 21 marzo, oggi, il primo giorno di primavera era dedicato a San Benedetto e che, per fissarlo nella memoria, potevo dire con lei “San Benedetto, le rondini sotto il tetto”. E subito, non so come, anche se fuori mettiamo pioveva e gli occhi cercavano invano il sole e il turchino del cielo, schiarivano le altezze e si facevano vicine e quasi azzurre per me che credevo. Gli angeli, con stracci e ramazze, lavavano via lo sporco delle nubi ed era primavera. Primavera d’intorno e di fiori e primavera dell’anima. La primavera cristiana di Benedetto, che, nobilissimo, di famiglia senatoria, romano, stanco del mondo, si era ritirato in una grotta e lì, nelle viscere della terra, come un fiore, era risorto e con lui era nato il monachesimo occidentale. Fioriva il cristianesimo, la nuova primavera. E io, immeritatamente, di quel fiore antico portavo il nome. “Per lui ti chiami così”, mi spiegava la nonna e non aggiungeva altro, come se la soma, per me, alta neppure un metro, fosse già troppa.
C’era Benedetto, San Benedetto che oggi si festeggia, mi pare, in luglio ma per me sempre il 21 marzo…, e c’era, per me, la fata primavera. La vedevo, io, la fata primavera, che danzava sull’erbe e a ogni passo di danza, sulle punte rosa delle sue scarpette divine, ecco spuntare le perle delle margherite, i nontiscordardime pallidi per la nostalgia dell’amore perduto, le stellarie dai gambi acquosi e poi i piccoli garofanini che avevano la bellezza antica impressa in quel color rosa scuro che mi deliziava.
Adesso, e non so perché, arrivava la primavera, rosa, incantata, nell’eterna energia della natura che si rinnova, rinasce, e sempre trionfa sulla morte. E, con lei, tornavano ronzando, anche le verdi cantilene che, nel loro tubino color verde smeraldo, che sembrava di metallo, abitavano le rose della mia mamma che, profumate, facevano ghirlanda sul colmo del terrazzo di cotto rosso, lì dove la ringhiera faceva da baluardo alle cadute. Mi svegliavo al mattino molto presto, con la cartella già gonfia di libri e quaderni, e, prima di scendere a bere il caffelatte e a mangiare il pane abbrustolito che sveniva nel fumo sulla graticola, aprivo la finestra per vederle dormire, le cantilene, perdute nei petali di rosa, ebbre di primavera. Amavo le cantilene , ma soltanto adesso che ho molti anni nella bisaccia, ho scoperto che le cantilene della mia infanzia, ali di poesia, verdi di quel verde prato di primavera, sono invece dei pericolosi parassiti per le rose, che si chiamano cetonie dorate e che non van d’accordo con i fiori di cui si nutrono.
Che strano, quando, sono andata a trovare mia madre, di cantilene non ne ho vedute più e le rose, sole, pur belle, mi sono parse un poco tristi. Ho fatto quattro passi in giardino, calpestando le erbe ricoperte delle nevi delle pratoline, e non c’erano più neppure le rondini a trafiggere il cielo con i loro voli pazzi. Solo il fischio rauco dei verdi pappagalli, che volano da un ramo all’altro, come chiamandosi fratelli. Vuoto il giardino, non più grida di bambini in gioco. Tutto silenzio intorno. Ho camminato da sola e mi sono seduta sul muretto bianco di cemento e ghiaietto. Mentre sedevo, da una bucolino, ecco d’un tratto comparire il musetto verde di una lucertola. E mentre sgattaiolava via, con la sua bella tutina di vellutello verde e nero, sono sicura di aver inteso una vocina che mi diceva: “E allora, che fa? buona primavera!”
di Benedetta de Vito