Ci siamo, domani è il giorno di Pasqua! Per il secondo anno celebrato senza la libertà di sempre. Ma, almeno quest’anno, rispetto ad un anno fa, chi crede, chi vive il momento più alto dell’anno secondo i canoni religiosi ed i suoi riti, si può frequentare le chiese, si può pregare insieme agli altri dal vivo, non soltanto in streaming.

Ecco questo articolo è per augurare a tutti una buona Pasqua, di pace, serenità e SALUTE.

Il seguito lo lascio a Benedetta de Vito…

Splende, lassù, l’astro ardente che sfavilla in un cielo azzurro di lacca cinese e io sono qui a pensare al venerdì santo di silenzio e dolore, in attesa della Pasqua che riporta, rinata e luminosa, la Verità nel mondo.  Una Verità con la v maiuscola, che brucia le tante menzogne che leggiamo ogni giorno sui giornali e ascoltiamo in televisione, una Verità luminosa che spezza in due le follie umane. Una Verità semplice, come i piedi puri degli apostoli (perché Gesù non lavò i piedi – e tanto meno li baciò –  al primo venuto), lavati dal Signore affinché potessero camminare, in purezza, lungo la strada della legge divina che non cambia mai ed è per questo costruita sulla roccia, sentiero saldo, cammino privo di tenebre. Nel mondo che ha per padrone l’altro, il tentatore. Sì, il depositum fidei, come l’astro ardente lassù che mi sorride in gioia ritrovata, non muta e non vacilla, perché pur essendo nel mondo del mondo non è e, silente, ci accompagna nella grazia dell’Amore divino. E a noi, privilegiati, nati dopo l’annuncio della salvezza è data in dono questa Santa Settimana che, ricordandola al profumo di rose, ci conduce, un passetto via l’altro, fino all’immenso Mistero. E ora invece, un passetto indietro per ripensar alla Pasqua mia di quando ero bambina.

In casa de Vito, per la Pasqua, uova di cioccolato poche, una ciascuno, e forse neppure, perché tanta abbondanza di dolci e di cioccolata non era, per il gusto severo di mia madre, roba da signori. Così lei, dopo averci concesso la sorpresa (oh, quanto amavo la famigliola di paperelle – mamma e pulcini – in plastica rossa e gialla che era il cuore dell’ovo!), imprigionava il cioccolato, a pezzi, nella rigida stagnola a colori, per conservarlo “per dopo” – come diceva  misteriosa – chissà dove e chissà perché, forse per dar pace a un suo fatale disinganno o forse perché, nella sua anima bambina, si sentiva ancora sotto i bombardamenti.  

Le uova no, ma la Colomba, che non piaceva a nessuno di noi bambini, non mancava mai sulla tavola e una fetta arrivava sul piatto, come l’amen in coda al Padrenostro. Per me c’era solo la crosta, una delizia color caffè e latte, con gli zuccherini spolverati sopra, chicchi di riso e sorriso. Schifavo, come tutti i fratelli, i canditi, che mi davano un gran lavoro di scavo, un mestiere segreto, inviso a mia madre, convinta che, per buona creanza, si dovesse lasciare il piatto sgombro, e non guardar mai in quello altrui. “Benedetta non mangia i canditi!”, protestava qualcuno, con l’occhio attento alle briciole grasse che spargevo sul disco del piatto. Restavano lì, i canditi, verdini, arancioni, in quella glassa al sapor di peccato, nonostante le spie…

C’erano le uova (poche) e la Colomba e c’erano i riti pasquali ai quali partecipavamo in famiglia.  Il giovedì santo, c’era la messa in coena Domini celebrata da Monsignor Nobels nella Cappella di Sant’Andrea, che pareva la grotta silvana  della maestà di marmo di San Gregorio al Celio; il venerdì i Sepolcri, sette dovevano essere, sette tombe di nostro Signore, una per chiesa. Io e mia madre, dentro e fuori, come in un gioco: le contavo con le dita, le tombe fiorite. Il pollice della mano destra era sempre il sepolcro di Santa Marcella, l’indice San Saba, il medio Santa Prisca e così via in cerchi sempre più larghi fino a salir sull’Aventino profumato di arance e di rose.. Lei, fuori, danzante, dentro piegata in due, in preghiera. Io a guardarmi intorno, in quel silenzio perduto,  che non ho trovato mai più, solo a volte, di rado, nel mistero perfetto della mia anima.

E in coda, nella Pasqua un poco stenta di oggi, con la mascherina a pesare sul muso, passo a parlare di carciofi perché, ieri, una mia cara vicina e amica me ne ha regalati due,  cucinati alla romana, come sa fare solo lei perché io ci ho provato invano molte volte e mi vengono un poco secchi e un po’ spinosi. I suoi, invece, sono di burro fuso e morbidi come purè e lasciano in bocca quel sapore dolce che va, almeno da me, accompagnato, subito dopo, da un bel  bicchiere d’acqua fresca e rotonda. Io, quei carciofi, li terrò per la Pasqua e auguro a tutti voi di mangiar carciofi buoni come quelli o altro così perché in allegria si ricordi il buono e il bello che c’è nel mondo… Buona Pasqua!

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