Oggi, di domenica, siamo alla festa duplice di Ferragosto e dell’Assunzione di Maria.

Il nome della festa di Ferragosto deriva dal latino feriae Augusti(riposo di Augusto), in onore di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano, da cui prende il nome il mese di agosto. In quel tempo era un periodo di riposo e di festeggiamenti, istituito dall’imperatore stesso nel 18 a.C., che aveva origine dalla tradizione dei Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, che, per i Romani, era il dio della terra e della fertilità. In tutto l’Impero si organizzavano feste e corse di cavalli, e gli animali da tiro, esentati dai lavori nei campi, venivano adornati di fiori. Inoltre era usanza che, in questi giorni, i contadini facessero gli auguri ai proprietari dei terreni ricevendo in cambio una mancia. Anticamente, come festa pagana, era celebrata il 1° agosto. Ma i giorni di riposo (e di festa) erano in effetti molti di più: anche tutto il mese, con il giorno 13, in particolare, dedicato alla dea Diana.

La ricorrenza fu assimilata dalla Chiesa Cattolica attorno al VII secolo, quando si iniziò a celebrare l’Assunzione di Maria, festività che fu poi fissata il 15 agosto. Il dogma dell’Assunzione (riconosciuto come tale solo nel 1950) stabilisce che la Vergine Maria sia stata assunta, cioè accolta, in cielo sia con l’anima sia con il corpo.

Ora ecco la celebrazione di Ferragosto alla maniera di Benedetta de Vito

Buona lettura!

Nel mio paesino sabino di Monte Santa Maria, addormentato ma in punta di piedi su una collinetta e abitato più da gatti e da spiriti che da persone vive, passo queste mie solitarie ferie di agosto, fabbricando rose di stoffa, pregando, scrivendo racconti e lasciandomi vivere, abbracciata alla natura, nella corrente del fiume Farfa, trasparente e pulito come in una cartolina della Creazione. Nel paesino addormentato – che somiglia, nella sua poesia, ai tanti piemontesi, che ammiro nel bel blog del nostro caro Giampaolo – dicevo, vivono tanti gatti, bianchi e neri e pezzati, che han preso il posto dei bambini. che fino a ieri popolavano, in bici o con un pallone attaccato al piede, viuzze e slarghi del borgo antico. Di colpo non ci sono più e quasi mi manca quel loro vociare allegro; spariti, via, come se il pifferaio di Hamelin fosse passato per di qui, davvero, portandosi via, con i ragazzini, gli urli e gli schiamazzi e le pallonate contro il monumento ai caduti della Grande Guerra che, solenne, domina la piazza…

Sono rimasti i gatti che a volte se ne stanno per mezz’ore acciambellati al sole, uno dentro l’altro, pelo nel pelo, in mistico abbandono; altre volte, tornati tigri, si fan la guerra a modo loro, sfidandosi come tanti Scilla e Cariddi nei musi duri e nei baffi ritti, naso a naso, la coda in punto esclamativo, in allarme. E il silenzio è rotto dal loro miagolar minaccioso che si stempera poi nel sonno. Un micio, d’un tratto, cede il campo, in un gomitolo di miagolii in cigolo e l’altro fugge lontano, all’altro capo della piazza. Torna la quiete nella gatteria e in paese.

Io, a volte, nella mia solitudine regina, mi affaccio alla finestra che guarda proprio sulla piazza, per osservar quei loro occhietti socchiusi, quasi di lana, che se si accorgono di me, aprono il pozzo del loro mistero: e stavo lì, affacciata, anche ieri pomeriggio quando d’un tratto, vedo comparir, sul margine opposto della piazza, due omini che parevano di zucchero. Vestiti alla campagnola. Insieme – ho subito pensato – messi come acrobati uno sull’altro, non farebbero due metri eppure, nella dignità, sembrano giganti. Uno dei due, vecchio come Matusalemme, forse per parer più alto, portava in capo una specie di cilindro che lo faceva somigliar a un cartone animato. Restai alla finestra ad osservarli mentre mi sfilavan sotto il petto. Camminavano a braccetto, impettiti, generali tutti e due di un esercito immaginario, piccoli Napoleone. E quando giunsero sotto la mia finestra, quello col cilindro, senza togliersi il cappello, mi disse: “Bonasera, comma’!”. E mi parve di vivere, per incanto, nel sabato del villaggio di Giacomo Leopardi, io, la donzelletta che venia dalla campagna in sul calar del sole. Io, paesana, gatta, tra gatti e spiriti. E così, in dolce sorriso tutto del cuore, li ho salutati anche io, con un “buongiorno compà!” e li ho visti, ridenti, scomparir dietro la piega della strada…

E con loro, in un fiat, i giorni di queste settimane calde che portano dirette, in treno rapido, fino al ferragosto, giorno dell’Assunzione della Vergine Maria. Chiudo gli occhi e tutto questo silenzio beato della Sabina mi ricorda un mio antico ferragosto di silenzio e nuvole a Venezia. Chiusi gli occhi, salita nella macchina del tempo e voi con me, lascio i gatti di Monte Santa Maria per trovarmi in mezzo ai mici veneziani che trovai per la via, tra calli, rii e campielli. Eccoci, mia sorella Sabina e io, ancora giovanette, in un’antica passeggiata veneziana. Lei seguiva le piste della sua tesi di laurea su Girolamo Mocetto, pittore per così dire di vetrate e anche un poco minore, io la sorella maggiore e anche l’amore per l’arte che, in palpito, mi guidava.

Uscite dal tragitto che conduce alle mercerie e a San Marco, eccoci, noi due, perdute in una Venezia addormentata, silenziosa. Gocciola una fontanina, il cielo è turchino e fermo, le acque placide scorrono. Su e giù per i pontesei, noi due solamente, spiate dai gatti veneziani, distesi nel mistero, rapite in una protostoria.

D’un tratto ecco ergersi, gigante all’orizzonte, la stupenda Chiesa di Santa Maria Gloriosa, detta più semplicemente Basilica dei Frari, che sarebbero poi i frati minori che la custodiscono. Entriamo ed è il bagliore sublime del cielo d’oro di Maria Assunta, dipinto da Tiziano, adesso a rapirci. Un cielo d’oro da icona bizantina. A bocca in su, silenzio nel silenzio, perdute tra gli angeli, noi due pure, siamo con la Santa Vergine in volo. Bellissima, giovanissima è la mamma nostra celeste e, nel suo bell’abito rosso svolazzante, con il mantello blu che le fa, arioso, da anello intorno, sale all’appuntamento supremo che la farà Regina dell’Universo. Tutt’intorno, un tripudio di angioletti e alcuni reggono le nubi che sostengono i santi piedini. Lo sguardo di lei è volto a Dio che, da lassù, nascosto il corpo nella nube della non conoscenza, la barba bianca, paterno lo sguardo a lei, la attende.

Buon ferragosto!

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