Stavolta sono andato in Val Borbera, a Cabella Ligure, in un luogo dove si sente forte il profumo del pane ed ho trovato Irene Calamante, titolare e ideatrice di Cuore di Pane, un laboratorio biologico e artigianale Pasta Madre e Grani Antichi. Con lei abbiamo fatto quattro chiacchiere.
Da quanto tempo ha aperto?
Quattro anni e mezzo, quasi cinque. Per me era la prima volta, ho fatto una scelta di vita un po’ drastica, nel senso che io prima ero educatrice professionale, quindi lavoravo in strutture per le riabilitazioni, handicap, questo tipo di lavoro. Però ero arrivata ad un punto in cui avevo bisogno di ritrovare un po’ le mie radici, di basare la mia vita su cose un po’ più concrete. Non che il lavoro precedente non mi piacesse o che non lo trovassi edificante, però sono arrivata ad un momento in cui ho deciso di pensare a me e non soltanto agli altri. In questo passaggio mi hanno aiutato tantissimo le donne della mia famiglia, il ricordo del loro lavoro, di quello che mi hanno insegnato e, nella fattispecie, mia nonna Adele, una persona che mi ha insegnato a fare il pane, perché a casa mia si faceva ancora. I miei nonni erano marchigiani, abituati nelle grandi cascine dei proprietari terrieri a fare tutto insieme. Ho un ricordo di lei bellissimo. Mi spiegava la sua vita circa le lavorazioni del pane e mi diceva: “Noi donne della famiglia ci trovavamo tutte insieme, saremo state una trentina. Lavoravamo attorno ad un tavolo enorme ad un solo impasto”. Mia nonna mi trasmetteva un eco lontano che mi faceva pensare a qualcosa di veramente buono, di lavoro umano.
Quindi la nonna è stata un po’ una guida spirituale
Si, praticamente anche la prima insegnante, soprattutto la prima ad avermi insegnato a fare la pasta madre. Lei usava sia la pasta di riporto che la pasta madre, che sono due paste differenti. La pasta madre che faceva lei ce l’ho ancora adesso, quindi la utilizzo ed ha il suo nome, si chiama Adele. Quindi ho iniziato quest’avventura, tra l’altro avevo già iniziato a trasferirmi qui, ed abito in Val Borbera da una decina di anni.
Ma il pane viene più buono in Val Borbera o ha lo stesso gusto?
Secondo me viene più buono. I grani sono locali, l’aria e l’acqua influiscono tantissimo. Ma la farina è un elemento importantissimo. E’ un po’ l’identità di un territorio la farina, come ovviamente altri prodotti. Per quanto riguarda la mia lavorazione ha un’identità molto forte. Oltretutto la Val Borbera è estremamente votata sia alla coltura cerealicola e a tutto ciò che ruota intorno a questa coltura, perché lungo il Borbera c’è una serie di vecchi mulini a pietra e questo dà l’idea che comunque la Valle un tempo era indipendente economicamente, quindi si facevano tutto qui. Il pane era ancora un alimento quotidiano, un nutrimento effettivo. Per me questo è un valore enorme.
Infatti, quando ho aperto qui molti mi hanno detto: “ma un’attività del tuo tipo, una lavorazione artigianale, prodotti a km zero, prodotti a filiere corte, integrate, l’utilizzo di lievitazioni naturali, dovresti andare a vendere nelle grandi città”. Ecco, non avrebbe senso per me. Ha senso essere nel territorio che si rappresenta, col lavoro rappresenti davvero il territorio di provenienza. Poi penso che sia proprio un valore aggiunto che un prodotto proveniente da questo territorio venga venduto nel territorio. Di fatto io ho circuiti di vendita per cui esco dalla Valle, Cuore di Pane è principalmente un laboratorio di trasformazione, non è un vero e proprio negozio di vendita tradizionale. Ovviamente le persone vengono qui ed acquistano senza alcun problema. Io lavoro principalmente con i gruppi di acquisto e le aree mercatali. Quindi noi facciamo i mercati della Coldiretti in tutta la provincia. Lavoriamo conto terzi, quindi per i ristoranti.
C’è un buon riscontro?
Si, c’è un buon riscontro perché in questo tipo di vendita c’è un contatto molto bello con la persona, con il cliente. Il cliente non è casuale, perché è interessato, ricerca prodotti che non hanno intermediari, quindi vengono direttamente dal produttore. Quindi il cliente diventa un anello importante della filiera corta, così come lo sono io produttore nell’ambito della trasformazione delle farine. Il cliente che riesce a conoscere il produttore, cosa fa e da dove vengono i prodotti in maniera molto trasparente e chiara lo rende anche più motivato. E magari c’è lo stimolo ad andare a conoscere il territorio di provenienza.
Se uno produce il pane in maniera industriale perde questo connotato.
Si perde l’aspetto più umano che è nato da questo tipo di alimento. Il pane un tempo serviva a sfamare le persone. Era nutrimento vero e quotidiano per le famiglie. Col mio lavoro vorrei che ritornasse ad essere così. Un pane per tutti, un nutrimento effettivo. Non è questa controcultura, però è importante dal momento che crea una differenza grossa sia dal punto di vista economico – perché sono pani artigianali, sono fatti per durare e non c’è spreco – e a livello di etica economica, di lavoro, diventa qualcosa che può davvero salvaguardare la biodiversità di un territorio.
Mentre i laboratori come nascono?
L’idea che ho sempre avuto era ricreare la situazione famigliare in cui io ho imparato a fare il pane. Era di trasmettere. Quest’idea rientra nel formare la nutrizione sana. Il riferimento è a quello che era il forno del villaggio, era un forno condiviso. Non era di proprietà di una persona sola, magari si c’era e c’era anche l’aspetto di vendita; era un posto dove le famiglie andavano a cuocere, era un luogo di aggregazione importante. Escludendo questo periodo iniziato con il Covid-19, nel momento in cui non ho la lavorazione, non ho il mio circuito di vendita, è aperto agli altri. L’aspetto dei corsi di formazione che faccio è importante. E di condivisione. Purtroppo interrotto dall’insorgere del Covid-19, mio malgrado. Preferisco non fare nulla online, non si può fare insieme l’impasto. Abbiamo mantenuto un gruppo di tutti coloro che hanno fatto il corso. C’erano bambini insieme con i genitori perché secondo me è bello che vivano insieme questa cosa. Anche persone disabili. Mi manca molto questo aspetto.
Quanti tipi di pane escono da questo forno?
Io ne faccio tanti quanti sono i tipi di farina. Comunque prediligo le forme grandi di pane, essendo un pane che dura nel tempo, o anche di focacce. Ciabatte e baguette le faccio anche su richiesta, però secondo me un pane artigianale va fatto con la forma tradizionale con forme da mezzo chilo o un chilo. Addirittura ho richieste di forme da cinque chili. Prediligo comunque le ricette della tradizione locale di derivazione piemontese-ligure.
Qui c’era una michetta di pasta dura molto interessante che aveva una forma ovale, che è un po’ anche derivato dalla tradizione dell’Appennino ligure fatte con i grani locali. Anche di tradizione montana visto che a Cabella inizia l’alta Valle, quindi anche i pani scuri integrali .
Quest’estate c’è stata una rassegna dal titolo Appennino Futuro Remoto molto interessante, un progetto sulla rivalutazione delle zone rurali di alta montagna, dove si rappresenta un po’ tutto l’aspetto culturale e produttivo. Un evento corale con l’Amministrazione e tutti i produttori locali. Ho creato per loro un pane chiamato “il pane dell’Appennino”, un pane scuro di segale locale prodotta a Magioncalda dove c’è il molino nuovo. Fatto con le erbe selvatiche raccolte in loco.
Ma il pane lo produce tutto da sola?
Ho una dipendente, una collega. E’ una conduzione famigliare perché i miei genitori sono coadiuvanti, mi fanno tutte le aree mercatali.
Se uno vuole comprare il pane di Cuore di Pane senza venire a Cabella?
Al mercato della Coldiretti a Novi Ligure il mercoledì mattina e quello di Alessandria il venerdì mattina in Piazza della Libertà e poi noi consegniamo anche dietro ordinazione direttamente a casa.
In più, faccio tutte le fiere ed i mercati di settore, lavoro con Golosaria di Paolo Massobrio
Con quali filiere collabora?
La filiera del pane grosso di Tortona, che ho contribuito a creare; ne abbiamo creata un’altra qui in Valle che si chiama “Terre e Sapori di Eccellenza”, verrà presentata dietro un progetto presentato al GAL GIAROLO LEADER, vedrà l’apertura di una rivendita un po’ sopra le righe, da parte mia una sorta di pancaffè realizzato qui in piazza a Cabella dove convoglieranno non solo i pani locali ma anche tutti i prodotti delle filiere con cui collaboro. La location è dove ora si trova un albergo, c’è la parte di accoglienza – il pancaffè sotto – un punto informativo, diventa in realtà un servizio turistico. La parte bella che mi emoziona molto di più è che ho avuto un riscontro molto positivo con le amministrazioni locali. L’altra filiera si chiama Terre Derthona, di cui io sono un consigliere del CdA. Il lavoro futuro dei territori nostri che sono un po’ rurali e un po’ no, sia un lavoro di rete, una rete territoriale perché non abbiamo più la forza di imprimerci come aziende. L’energia dei territori è molto cambiata rispetto a prima.