Ho chiesto a Benedetta de Vito di condividere uno scritto tutto suo sull'arrivo della stagione primaverile, che si vede dal risvegliarsi della natura, che si manifesta giorno dopo giorno con segni inequivocabili.
Mia madre, quando eravamo tutti ancora nella casa bianca, inginocchiata sotto al Colle Aventino, ci dava un giorno sì e uno no, la fettina con l’insalata.
Al venerdì, come comandava il catechismo (ma anche la ragione) il baccalà al sugo rosso, per mangiar di magro e ricordare il sacrificio supremo del Venerdì Santo (che io onoro, nel digiuno di un pasto, oggi pure).
Il giovedì erano gli gnocchi al sugo di pomodoro, fatti uno per uno dalla Mimma, la donna di casa, che pelava e bolliva le patate per poi, impastate alla farina, tirar lunghe collane di pasta molle alle quali si mozzava il capo per farne quadratini di delizia.
Il mercoledì era il giorno delle rosette fritte, farcite con la mozzarella, che la Mimma chiamava “in carrozza” (e le vedevo le nuvoline bianche sedute nella mollica come tra il velluto…).
Eccoci al di ritorno dalla scuola, affamati, a naso in su per catturar l’aroma. Correvamo, Marco e io, per mangiar quel cibo prelibato, croccante e d’oro.
Sì, i sapori di una volta mi vengono incontro alla memoria e pure nel palato, quando, al supermarket, mi si parano innanzi sotto cellophane zucchine, carote patate e porri che sanno di poco o di nulla, tutti stirati in un ordine troppo umano e molto poco mio.
La Mimma, con la sporta nera, comperava la verdura nei banchi spettinati del mercato di Testaccio, dove abitava lei in una bella casa di ringhiera a fianco di Santa Maria Liberatrice.
Svenivano sul tavolo della cucina certe mele un poco guaste, ma che lei mi diceva essere beccate dagli uccelli, gran buongustai. “Se magnano le migliori che te credi!”, rideva in romanesco e si faceva tutta sorriso per me che la ammiravo.
L’insalata era sempre lattuga e la verdura da capare e bollire cicoria. In giardino, con lei, cercavamo l’acetosella che era un’erbolina verde accesa, in livrea di vellutello e che dava sapore e gusto alle sbiadite foglie di lattuga.
Anche i fiori mi mostrava e in primavera, allora come adesso, esplodevano le gemme e il suo sapere.
“Hai visto i nontiscordardime?”, mi diceva, indicandomi dei fiorellini celesti, delicati, smunti che, in piccolo raduno, coloravan di azzurro l’erba.
Erano, lo sapeva, indizio di primavera. Infatti, il giorno appresso, i prati parevano ricoperti di neve: la neve delle margherite. Solo grande, al liceo, seppi che margherita in greco antico significa perla e quindi ecco i prati ingentiliti come principesse da collane di perle.
Ed ecco perché – ora lo so – con la mia amica del cuore, ci piaceva, con le margherite intrecciar collane che somigliavano alle perle delle nostre mamme. Di certo lo facevano anche le bimbe ateniesi…
C’erano i fiori violacei della malva e solo con le foglie la Mimma ricavava un qualcosa da bere che per me era un saporaccio, ma, secondo lei, faceva bene e ti ripuliva cuore, fegato e polmoni. Con le stellarie, bianche e dai gambi umidi d’acqua e con i garofanini selvatici facevamo gran mazzi di fiori per le Madonnine, mentre con i petali di rosa l’acqua profumata che fungeva da essenza.
Un mondo semplice, rotondo, che non c’è più, ma che mi viene incontro oggi che è quasi primavera e che le tenebre sembrano oscurare il giorno. Quel mondo lì, profumato di lavanda, c’è ancora, nonostante tutto.
Basta cercarlo nel nostro cuore!
di Benedetta de Vito