La Pasqua è la principale solennità del cristianesimo. Essa celebra la risurrezione di Gesù, avvenuta, secondo le confessioni cristiane, nel terzo giorno dalla sua morte in croce, come narrato nei Vangeli. La data della Pasqua, variabile di anno in anno secondo i cicli lunari, cade la domenica successiva al primo plenilunio di primavera, determinando anche la cadenza di altre celebrazioni e tempi liturgici, come la Quaresima e la Pentecoste. Il significato della parola Pasqua deriva dal greco: pascha, a sua volta dall’aramaico pasah e significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”. Gli Ebrei ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
La Pasqua, quest’anno, sarebbe arrivata proprio come una liberazione, dopo due anni di restrizioni da Covid, ma l’uomo condiziona il destino di sé stesso e degli altri suoi simili, quindi da oltre cinquanta giorni c’è la guerra in Ucraina. Mai richiesta di Pace sotto Pasqua è più invocata di oggi. Pace e speranza.
E queste poche parole servono comunque a celebrare la festa più grande della cristianità. Lo facciamo qui con un bel pezzo scritto da Benedetta de Vito dal titolo:
Vorrei mandare…
Vorrei mandare, se potessi, a tutti i miei lettori il mio piccolo coro di passeretti canterini, con il bel fazzoletto turchino d’ordinanza al collo e ben svolazzante, che, con i loro vocalizzi alati in gloria al Cielo, sanno restituire il cuore sconfortato degli italiani all’Onnipotente, nella semplicità rotonda della loro grazia. Vorrei, sì, perché è dura, davvero molto difficile, celebrar la Santa Pasqua di resurrezione – nel magnifico Triduo in cui ricordiamo la Passione e Morte di Nostro Signore e la sua gloriosa Resurrezione – mentre tutt’intorno rullano i tamburi della guerra, in tv e nei media in genere se ne sentono di cotte e di crude, la mente è frastornata dall’incessante sottofondo di morte e desolazione. E difficilissimo è continuare a sperare (perché la Speranza è virtù teologale, cioè che riguarda Dio e che ci lega a Lui nel Logos, cioè nella Parola), quando ogni giorno di più par di vivere nel mondo al contrario, in un mortificante bombardamento di verità nascoste, di menzogne, di atrocità e incongrue ingiustizie. Sì, difficile, eppure noi credenti, in devozione alla Trinità, pieni di Fede, di Speranza e di Carità (appunto), siamo chiamati ad accettare riconoscenti anche il buio che il Signore saprà trasformare in Luce. Sempre. Nonostante tutto. Cito San Paolo nella lettera ai Romani: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli”.
E la Santa Pasqua è proprio la festa della Speranza, della Luce che si riaccende nelle tenebre. Il Santo giorno domenicale in cui quanti credono nella Parola che salva proclamano al mondo incredulo, percorso dall’odio, regno di Lucifero, che nonostante tutto, “in hac lacrimarum valle”, il Signore Gesù, il Re dei Re, Via, Verità e Vita, sempre trionferà e che, anche se vilipeso, ingiuriato, crocifisso, Egli risorgerà, vincitore. Ecco la speranza, ecco la gioia, ecco il trionfo. Nelle uova di Pasqua, augurio di nuovo inizio, come nell’uovo nasce il piccolo pulcino (e anche i miei passeretti), è un senso molto, molto profondo, e non basta a nasconderlo il cioccolato buono, le sorpresine frivole e tutte le carte colorate che lo riducono a un regaluccio vistoso e mondano. Ma l’uovo è e resta (anche se vestito da Arlecchino), in nuce, la Vita. Ed ecco perché, anche se il mio bambino ora è uomo fatto e si rifiuta di prender l’uovo da noi, io ne ho comperato uno bello, decorato in azzurro, per lui, che è il futuro in questo mondo a gambe in su.
C’è l’uovo, che è tutto e c’è la Colomba che è lo Spirito Santo, la colombina aggraziata, dolce, leggera, la quale scende su Maria e sugli apostoli nel giorno di Pentecoste, cioè cinquanta giorni dopo la Pasqua, ma che nel grazioso volo del bianco volatile, è qui preannunciato in forma di un dolce gustoso che dovrebbe essere, ed è, nelle tavole di tutta Italia. E poi c’è l’agnello, a Roma si chiama abbacchio, o forse anche altrove non so. Gli animalisti e coloro che si battono contro ogni tipo di tradizione legata al sangue sparso han bandito l’agnello pasquale dalle tavole degli italiani, dicendo che è qualcosa di superato, di arcaico, che nulla ha a che vedere con la tradizione cristiana. Certo, anche a me fan pena gli agnellini bianchi, ci mancherebbe (anche se da piccola me li regalavano tutti in candore di pan di zucchero e io me li mangiavo, eccome, senza nessuna pietà…) con quelle loro tenere orecchie penzoloni, ma mangiar l’agnello a Pasqua, mi dispiace per gli animalisti che vedo diventar verdi, rossi, gialli e viola per l’ira, ha un significato profondissimo e sempre attuale nella tradizione cristiana. Poiché Gesù è l’Agnello Pasquale sacrificato per noi, morto per amore nostro, l’agnus Dei, annunciato da Giovanni Battista, che, morendo, vince la morte…E proprio ieri e anche oggi, non a caso, al momento del Canto al Vangelo, il lettore dal pulpito legge: “Lode e onore a te, Signore Gesù! Salve nostro Re, obbediente al Padre: sei stato condotto alla croce come agnello mansueto al macello. Lode e onore a te Signore Gesù!
Buona Pasqua in Domino!
di Benedetta de Vito