Ricevo e pubblico molto volentieri una corrispondenza da Benedetta de Vito, collaboratrice di Storie di Territori. Buona lettura!

Sembra un nido d’aquila, Nuoro, il capoluogo della Barbagia, che guarda in viso il suo bel Monte Orthobene, dove, tra le antenne lassù, spicca la grande statua del Redentore. Silenziosa e indifferente, Nuoro accoglie a modo suo i turisti (chiudendo tutto all’una di pomeriggio in punto!) che decidono di visitare qui la casa natale (divenuta museo) di Grazia Deledda, il museo del Costume sardo e di gettare un occhio al palazzo elegante dove a volte si rifugiava Salvatore Satta, l’autore di “Il giorno del giudizio” e di fare un bel giro nella piazza bianca, dedicata a un altro Satta (Sebastiano) dove le pietre arcaiche, i graniti sardi, erette da Costantino Nivola (famosissimo scultore di Orani, un paesino barbaricino), raccontano la pietrosa natura di questi luoghi, che respira nel silenzio pastorale delle montagne e s’incarna nei volti tagliati con l’accetta dei suoi abitanti. Cammino per Nuoro in un infuocato giorno di luglio, con una amica di qui, ben contenta di mostrarmi tutto il bello che c’è. E bello e tenero è il museo dedicato alla Deledda, dove s’entra nel cuore domestico della scrittrice, vincitrice del Nobel, che ora riposa sotto il Monte Orthobene nella piccola chiesa detta “La Solitudine”.

Solitaria, silenziosa, discreta è Nuoro, la Nugoro amada che ha tutt’intorno tanti paesini che cominciano per O: Oliena, Orani, Orune e altri con la M come Mamoiada, il paese dei mammuttones. E la Deledda è ovunque e non solo a casa sua, Che gioia è visitar la sua camera da letto, dove ancora adesso la finestrina offre una vista tutta particolare dell’Orthobene e dove lei si coricava sotto una Madonnina con Bambino e scapolare! Al piano interrato, c’è, ricostruito, il suo studio romano, tutto foderato di bei mobili sardi. Al primo la cucina, bella, campagnola con il braciere, il pentolame di rame, e il graticcio per affumicare il cacio. L’orto è ora un giardino ombroso vissuto da alberi centenari e l’Orthobene, di nuovo lì a fare da tendaggio verde ai sogni di “Graziedda”. Sì, la Deledda, amata nella sua Nuoro, abita ancora tra i vicoli del suo quartiere Santu Predu, il rione dei possidenti-pastori, che ancora oggi si vuole distinguere dal resto della città! Anche in forma di statua, un bronzo particolare che, però, non a tutti piace e neppure a me, ma diciamolo sottovoce…

Voce e tanta l’hanno, invece, i cantori nuoresi del gruppo “Nugoro amada”, che ho avuto la gioia di sentir cantare nella chiesa di Sant’Ignazio a Oliena, il paesino barbaricino posato da una fata nana sotto la calda presenza azzurra del monte Corrasi e dove si produce il vino Nepente, così chiamato da Gabriele D’Annunzio, memore della bevanda che Elena dava a Menelao e ai suoi ospiti per toglier loro la tristezza. E’ la messa nuziale per due giovani sposi e presto presto s’aprono per noi le porte della bella chiesa. Uno sguardo col compasso e m’innamoro delle statue lignee che mi fanno il girotondo intorno. Oh, c’è San Michele, nooo, così bello! Click click, lo fotografo il mio Generale, e avanti. La Santa messa è cominciata, parenti e amici seduti e i Cantori tutti radunati sotto a un bel Gesù che mostra il suo cuore infiammato d’amore. E il cuore mio s’infiamma e scende lo Spirito Santo che mi fa salire in volo lassù, quando i nostri intonano “Mama e su nie”, che dà inizio alla funzione e poi l’Alleluya, in profondità di pensiero e volo d’angeli. Al “Santu” fremono le corde vocali dei bassi e freme il cuore di mio marito che non è propriamente di burro fuso. Nel “Panis Angelicus” al momento della Santa Eucarestia, la chiesa si colora di fiori celesti e io immersa in Lui, tutta nelle voci. Cuore a cuore.

Prima dell’ite missa est, i cantori fanno corona intorno agli sposi, inneggiando a Maria, in un canto “Maria lassù” che scioglie l’anima e l’abbraccia all’assoluto. Ma bello, bello davvero! E vorrei che il gruppo “Nugoro amada” venisse a Roma a cantare a Santa Maria Maggiore, la Basilica del mio cuore. Fuori il sole splende, Oliena sorride lei pure e mostra, vanitosa, le sue piccole perle: i murales (alcuni belli altri meno) che vivacizzano l’intorno, la bella piazza dove il monte Corrasi pare sedersi a bere un caffè, il via vai allegro della gioventù e un negozio di vestiti per bambini che è di buon augurio per gli sposi.

Entriamo a bere un sorso di fresco in un bar elegante sul corso e mentre mio marito e io ci intratteniamo con il Maestro del Coro, Gianni Garau, loro, i cantori, continuano a cantare (divertendosi un mondo) e questa volta sono canzoni d’amore e d’amicizia, con ritornelli che anche non significano un bel nulla e sono deliziosi alle orecchie e al ritmo interiore. E viene anche voglia di ballare! Ma sentite un poco come nasce il “canto a tenore” che è l’anima ancestrale, remota, antichissima di questa arte antica che, nel 2005, è stato inserito dall’Unesco, tra i Patrimoni orali e immateriali dell’umanità. Le voci sono quattro e la prima è quella del pastore (sa oghe) che, nella solitudine, canta e chiacchiera con i suoi animaletti. La seconda voce, infatti, leggera è quella dell’agnellino e la terza, più potente, è del vitello. La quarta voce, quasi rauca, (difficilissima da fare!) è quella del maiale. Dai, ma è fantastico! Il pastore domina le sue bestiole, che gli rispondono con i loro dolci versi.

E anche se non l’ho ascoltato, il canto a tenore, in questa bella festa che si prolunga dalla chiesa al bar, mi perdo, ascoltando i loro canti, nei campi e nei vigneti (qui il vino, buonissimo, fu battezzato Nepente da Gabriele D’Annunzio nel 1910, memore della bevanda che Elena dava a Menelao e ai suoi ospiti per toglier loro la tristezza) e nelle lontananze azzurre della Barbagia e ringrazio per questo dono del Cuoresardo che mai, e ripeto mai, smetterà di battere forte.

Benedetta de Vito

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