Una lettura leggera, ma autentica, un piccolo racconto legato al periodo dell’Avvento a cura di Benedetta de Vito

Una pecorella rosa

Se Pordenone, con il suo bel Noncello d’acque cristalline, ha nutrito le mie radici di bimba campagnola e Roma, eterna nella bellezza coi piedi in guazzo nel Tevere biondo, mi ha donato la sua fede, Padova, racchiusa nel suo mistero avvolto nella nebbia e racchiuso nel Santo, mi ha fatto il dono bello di diventare moglie e poi madre. Nella città del prato senza erba, ho imparato, un poco faticando, a entrar in una famiglia che doveva diventar il mio nuovo vestito e che mi cambiava tutta, anche il cognome. A Padova ho passato il Natale del fidanzamento e poi tutti quanti in fila quelli di sposa e poi di madre, in totale fan ventisei e mi vien difficile figurarmeli ora, lunghi di giorni perduti…

Mia suocera faceva trovar già bell’e pronto all’arrivo l’albero addobbato di palle e di festoni d’oro, con i doni a tappeto tutt’attorno. Sulla cassapanca, il presepio, ricco di colline, cielo stellato, i personaggi di Betlemme. Un cammello sul picco del monte di cartone, indicava la presenza dei Magi in arrivo dall’oriente. Di notte, a lume spento, s’accendevan le lucine che tanto piacevano al mio bambino. Lui e lei, la nonna, lì di fronte, in dolce estasi d’amore. Un ditino s’alzava: “Lucine”. Lei tutta sorriso.

Nei miei giorni padovani che si srotolavano uguali tra i pranzi delle feste, le mie messe mattutine, i su e giù della vita famigliare, non mancai mai di attraversare l’Arcella, che è il quartiere di mio marito (amatissimo) e di Sant’Antonio morente, per vedere i tanti presepi all’aria aperta che sorridevano, tra l’erbe e gli alberi, negli ingressi tutti uguali, eppur diversi a modo loro, delle villette anni Sessanta, figliole del boom economico, che erano state, ai tempi loro, tutte cuore e bambini e che ora, malinconiche e un poco screpolate, respirano a fatica nella modernità, abitate soltanto da anime di anziani con rari nipoti, un cane, un gatto e pochi lumini.

Lungo la larga via che conduce alla fermata del tram che porta al Santo e a Prato della Valle, ad esempio, da anni e forse da sempre, c’è un gran presepio meccanico, dove, laggiù, distante, c’è la sacra famiglia col Santo Bambino, e davanti, tra grotte e casette in stile “Roma sparita”, una donna fila la lana, i panettieri infornano rosette e filoni, un pastore circondato dalle sue pecorelle, suona il flauto e i panni stesi ballano al vento gentile.

Nascosto, nell’intrico di vie di questo moderno rione novecentesco, c’è un altro presepe, che mi ha mostrato ieri mia cognata, il quale è grande nelle statuine ed è tutto costruito intorno a un albero che dividendolo a metà, pare squadrare le scene e mettere ordine sul palco di Betlemme con il tronco e le sue deste radici.

Tornando dalla messa del Buon Pastore, una mattina, sul cucuzzolo di una scalinatella, ecco un presepietto piccino, d’amore e zucchero…

E mentre ero lì che lo guardavo tra un ramo e la grata del cancello, una bimba da dietro diceva alla sua nonna: “Io, nel presepio, vorrei essere una pecorella rosa!” Mi girai, un sorriso e lei uguale a specchio. Sorridendo ancora la guardai andar via nella sua giacchetta color rosa di maggio.

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