Qualche giorno fa, più precisamente domenica 13 agosto, era San Ponziano. E, per gentilezza, ho ricevuto uno scritto che di lui ne parla. Me lo ha inviato Benedetta de Vito, gradita collaboratrice. Lo lascio qui di seguito alla vostra lettura. Come fosse un regalo appena dopo Ferragosto.
San Ponziano
di Benedetta de Vito
In agosto Roma respira, libere dalle macchine vie e piazze e, pur nella calura, il ponentino, venticello di Elia, spazzola i selciati di fiamma e i miei passi sciolti lungo i tanti sentieri dell’anima che s’aprono alla meraviglia mia. Sono a Santa Prassede, la basilica all’Esquilino costruita sulla domus del senatore Pudente, amico (ricchissimo) di San Paolo, e che diede alla cristianità due grandissime sante, le sue figlie Prassede e Pudenziana. Sì sì sì, le due dolci sorelle che raccolsero nel loro pozzo il sangue dei martiri. Eccola qui, ritratta in un bel dipinto di Domenico Muratori, la bella Prassede, nell’atto di strizzare un panno intriso del sangue purissimo di quanti, per difender la Verità che è la Trinità, offrirono la loro vita. Ed ecco perché sono qui, ma non per Prassede (pur amandola). Cerco il luogo di sepoltura, il loculo, la targa o qualcosa che ricordi San Ponziano, Papa e martire. Ma prima di continuare nella caccia al tesoro qui all’Esquilino, lasciatemi riavvolgere il nastro di tutta quanta la storia per spiegare come e perché mi trovo nella basilica che guarda di sguincio la magnifica Santa Maria Maggiore.
Chiudo gli occhi respiro, cambia il vento e da leggero e dolce ponentino romano diventa l’impeto a sventola del maestrale sardo. Il sole un dardo, il cielo un azulejo portoghese, sono in Sardegna, nella mia amata isola e proprio a Cala Girgolu dove è ambientato il mio “Cuoresardo” (che, tra parentesi appunto, è arrivato alla meta e sarà pubblicato e grazie a tutti!). Seduta sul terrazzino, vedo, anche se con gli occhi dell’anima, laggiù la spiaggia gremita, le onde popolate dalle barche, e odo in eco l’allegria estiva che spumeggia fino a me. Giro lo sguardo a Tavolara, che immota, rosa e celeste laggiù sembra guardarmi e dirmi: “Ci sono stati altri tempi, altre estati ricamate di dolore e pianti”. “Quali per esempio?”, le chiedo in muto dialogo e d’un tratto, senza che giunga una risposta, ecco che la spiaggia si fa deserta, le barche scomparse, inghiottite come dalle onde, il cielo d’indaco sembra la fotografia del mare, lui pure deserto. In una barca a remi, forse legato, non so, non riesco a veder bene, c’è un uomo con la barba dallo sguardo grave. E’ Ponziano, prigioniero, condannato “ad metalla” (cioè alle miniere) dall’imperatore Massimino il trace, un rozzo generale fatto augusto dai suoi soldati, che ebbe in odio gli uomini di Dio e soprattutto Ponziano, che il 21 luglio del 230 era diventato Pontefice. Che strano, proprio il 21 luglio si celebra la nascita in cielo di Pudenziana…
La barca del prigioniero è diretta, credo io, a Tavolara, isola calcarea, dove – e io le ho visitate, bambina, proprio a picco sul mare – ci sono delle antiche miniere. Scrivo Tavolara a ragione mia e non perché è stata l’isola stessa, per dir così a chiamarmi, ma perché la tradizione, invece, pone San Ponziano a Molara, un’isola a forma di dente molare appunto che dista poco o nulla dalla regina Tavolara. Ma Molara, che è isola privata, è bella di granito rosa e mai vi ho visto – né sentito raccontare – resti di cave. C’è invece a Molara una chiesolina, o meglio i resti di quella che fu una chiesa campestre, ed è intitolata proprio a San Ponziano. Ma mi dicono, gli studiosi del luogo, che furono delle suorine ritiratesi lì dal mondo a sceglier Ponziano per patrono perché lui pure, come loro, il mondo lo aveva lasciato. E così esse, in clausura marina, gli dedicarono la loro piccola chiesa…
Ponziano morì di stenti e di maltrattamenti proprio in Sardegna, che per i romani era “isola nociva” e forse proprio a Tavolara l’isola che allora i romani chiamavano “Hermea” e che ha una storia bella essendo lei, Regina del mare, il più piccolo regno sulla terra, ma questa è un’altra storia e torniamo a Ponziano. Prima di morire – proprio qui in Sardegna, dove ora villeggiano i turisti – il 28 settembre del 235, Ponziano si dimise, lasciò la cattedra di Pietro, perché la Sardegna, così lontana da Roma, era di certo per lui sede impedita. Dalla Sardegna le sue spoglie, grazie a Papa Fabiano, giunsero a Roma dove vennero tumulate nelle catacombe di San Callisto e l’iscrizione funeraria sua trovata nella cripta di Santa Cecilia.
Dalla Sardegna, in volo quasi mistico sull’orme alate di un grande Papa, in un comodo traghetto, eccomi di nuovo a Roma e di nuovo a capo di quest’articolo, cioè a cercar dove Papa Pasquale I, nello spirito di Santa Prassede, pose le spoglie di Ponziano e anche quelle del sacerdote Ippolito, arcinemico di Ponziano e quasi antipapa, che però con lui divise la corona del martirio sardo in ritrovata unità. Le vie di Dio! Percorro su e giù la basilica, cappella per cappella. M’affaccio nell’oro splendido del piccolo oratorio di San Zenone, dove la Madonnina è bella come una bambolina. Un occhio doloroso alla colonna mozza della flagellazione. Oh la bellezza divina degli angeli che fanno da cornicetta in alto lassù in girotondo sulle pareti della Chiesa, pronti a unirsi nel Santo alle voci dei fedeli! Di Ponziano niente però. Trovo un’iscrizione in cui si dice che in questa chiesa Papa Pasquale I traslò i resti di duemila e trecento martiri. Tra loro Ponziano, che è ricordato, leggo, una volta a casa, sul sito della Treccani, in una lista di nomi “sul primo pilastro della navata destra”. Allora, bene, sarà occasione per voi di trovarlo per me e per me di tornar lassù sull’Esquilino a fare una visitina a Prassede a Ponziano e anche alla Venerabile Enrichetta Beltrame Quattrocchi, “mestolino di Dio, che è stata in vita molto amica di una mia cara amica…