La prima campanella non suona per tutti lo stesso giorno. In Piemonte l’anno scolastico 2023-24 inizia oggi, lunedì 11 settembre, per terminare l’8 giugno (il 28 giugno per le scuole dell’infanzia). Il calendario approvato dalla Giunta regionale piemontese comprende 206 giorni di lezione in aula negli istituti in cui si frequenta dal lunedì al sabato, 174 dove si resta in classe fino al venerdì. Potranno ridursi di un giorno per la ricorrenza del Santo Patrono.
In considerazione del servizio svolto le scuole dell’infanzia potranno anticipare l’inizio delle lezioni.
La novità
Novità assoluta l’introduzione della “clausola di flessibilità”: se fosse necessario sospendere l’attività didattica a causa dell’esecuzione di interventi di edilizia scolastica correlati ai finanziamenti del Pnrr potrebbero essere previste eventuali anticipazioni sulla data di inizio delle lezioni, ma le modifiche dovranno essere preventivamente concordate tra istituzioni scolastiche ed enti locali competenti per l’organizzazione dei servizi complementari come trasporti e mensa.
Chiusura per le vacanze
Definiti anche i periodi di chiusura:
- sabato 9 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata
- dal 23 dicembre al 7 gennaio per le vacanze di Natale
- dal 10 al 13 febbraio per le vacanze di Carnevale
- dal 28 marzo al 2 aprile per le vacanze di Pasqua
- 26 e sabato 27 aprile
Ora vi lascio alla lettura di Benedetta de Vito ed ai suo ricordi
A metà settembre, ancora ebbri di sole e di salsedine, noi bambini figli degli anni Sessanta (e di mamme che in ufficio, per carità, ci andava solo il papà!) tornavamo in città dopo i benedetti tre-mesi-tre di vacanze estive passate, di solito, nella seconda casa, che poteva esser villa o monolocale, ma che era sempre tutta naso alla brezza marina e occhi al rincorrersi delle onde smeraldine. Eccoci, noi, abbronzati, un poco spavaldi, quasi antipatici, convinti come eravamo che quei tre mesi fossero un diritto sacrosanto, inciso sul bronzo (lo era, ma sul cioccolato), una roba come Carosello o Canzonissima che doveva durar per sempre. E non era così. Nessuno, nossignore, avrebbe avuto l’ardire di portarci via quei tre mesi sospesi nel blu. Sarebbe stata una rivoluzione, un Quarantotto come – metti caso – cambiar la data al primo giorno di scuola che allora, sul calendario, cascasse il mondo, si segnava il primo di ottobre e che oggi è ballerino e cambia di scuola in scuola. Il giorno tale le elementari, il tal altro le medie e poi ancora diverso il primo giorno delle superiori. Per noi, il primo giorno di scuola era il primo d’ottobre. Punto e a capo et incipit vita nova. Che iniziava, per me, alla Standa di Viale Aldo Moro ad Olbia al reparto scuola per scegliere astucci, penne, quaderni, matite. In incanto d’emozione… Tornavamo in città, dicevo, a trovar case e giocattoli vuoti di noi, stanze piene di solitudine, uno strano vacuo che odorava di nostalgia, come se le pareti delle nostre dimore cittadine, sconsolate, avessero sudato sale mentre noialtri, persi in altre visioni, eravamo lontani, dimentichi, ingrati e anche un poco traditori. Tornavo anche io. E trovavo le mie bambole, le abbandonate, ricoperte da un lenzuolo bianco, come da un sudario di morte. In frigidaire com’erano, non mi pareva neanche che scalpitassero per rivedermi. Anzi, mi voltavano spalle e schiena, fredde al mio cuore acceso per loro. I mobili in salotto – divani e poltrone e tavolini – erano altrettanti sconosciuti fantasmi a popolare uno strano mondo che, come per un incantesimo, pareva averli fatti di gesso e di sonno nero dal giorno in cui, caricata l’automobile con grandi urli dell’ingegnere mio padre (ché le partenze sono sempre un miserere…) e consumato l’abbandono, eravamo partiti, armi e bagagli, per Cala Girgolu. Mi perdevo, dunque, dimentica dei miei doveri da ritorno a casa, per le camere spente, rese solenni dalla penombra delle taparelle abbassate della casa romana; dentro e fuori, da una camera all’altra, come a imbastir l’antico patto domestico che ci aveva legato, io e la casa, durante gli inverni fedeli e gli autunni d’oro. Invano. Restavo un’estranea in quelle deserte stanze e respiravo l’odore di assenza di noi, un odore che mi seccava la gola e che mi faceva scendere le tenebre nell’anima. Non riconoscevo i letti e neppure i cuscini mentre la casa pareva farmi la linguaccia, corrucciata, come un idolo adirato che aspettasse altri bambini. Un’altra me. Una settimana dopo ero seduta nel banco smeraldino dell’Istituto Mater Dei, di nuovo io.