Partecipando ad una funzione domenicale estiva in una chiesa sui Colli Tortonesi, durante l'omelia del celebrante, ho sentito citare la storia di una suora “speciale”, non originaria di queste terre, ma passata da Alessandria per poi andare ad operare in provincia di Cuneo.

Rita Agnese Petrozzi, conosciuta come Madre Elvira, spesso ricordata come “la suora dei drogati”, nasce a Sora (Frosinone) il 21 gennaio 1937, quarta di sette figli, da “mammà” Concetta e papà Antonio. “Figlia di gente povera”, durante la seconda guerra mondiale la piccola Rita emigra con la sua famiglia ad Alessandria, dove vivono l’emarginazione e la miseria del dopoguerra. Fin da piccola la vita le insegna a pensare prima agli altri: in casa, Rita è abituata a servire tutti, aiutando la madre ad accudire i figli e accogliendo la debolezza di suo padre, spesso ubriaco e senza lavoro, cosa che sovente la ferisce e genera vergogna in tutta la famiglia.

Rileggendo poi la sua storia a posteriori, alla luce dell’incontro con Dio, Elvira dirà che suo papà è stato la sua “università”, la prima scuola di vita che l’ha formata per saper poi tendere la mano a persone fragili come lui: «È stato il primo povero che ho dovuto accogliere, amare e servire». “Mammà” Concetta lavora come infermiera passando lunghe giornate fuori casa per mantenere la famiglia e alla sera, nonostante rientri sfinita dal lavoro, con tanti problemi da affrontare, canticchia con serenità e fiducia, trasmettendo così alla piccola Rita che la vita vale comunque e sempre più di ogni problema, più di ogni sofferenza.

«La vita mi ha insegnato sin da piccola a pensare sempre prima agli altri che a me, e oggi riconosco che questa è stata la mia ricchezza». Quando in casa si ha un pezzo di pane o qualcosa da mangiare, il “ritornello” che sua madre le ripete ogni volta è: «Rita, ricordati: le bocche sono tutte sorelle! E tu non puoi mettere in bocca qualcosa senza farne dono anche agli altri». E così, seppur nel disagio della povertà, la mamma la educa a gesti di solidarietà.

La chiamata di Gesù arriva già quando Rita ha circa dodici anni. Non potendo andare in chiesa alla domenica, a differenza delle altre bambine dell’oratorio, perché scalza e troppo povera perpermettersi un paio di scarpe, un bel giorno decide di andarci da sola. Quando entra in chiesa, si dirige verso la nicchia dove è riprodotta la Grotta di Lourdes e, guardando verso la statua della Madonna, sente con lei un’unione particolare, unica, e con slancio le dice: «Di’ a Gesù di chiamarmi!».

A 19 anni, Rita è una giovane ragazza che progetta di formare una famiglia molto numerosa, con tanti figli, ma è lì che avverte forte nel cuore la chiamata alla vita consacrata e ad allargare gli orizzonti del cuore. Lascia, perciò, il fidanzato e comunica alla propria famiglia la decisione di entrare in convento. Nonostante le fatiche dei suoi familiari e la sofferenza nel lasciare sua madre da sola nella cura dei figli, Rita segue la chiamata di Dio e l’8 marzo del 1956, alle cinque del mattino, con una valigia di cartone sale sul treno che la porta a Borgaro Torinese, presso le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, dove prenderà il nome di suor Elvira.

L’8 settembre 1965 emette la professione perpetua e rimane per circa ventotto anni in questa Congregazione, svolgendo vari servizi: per tanti anni lavora in cucina nei seminterrati dell’Ospedale Mauriziano di Torino e in altre strutture ospedaliere; in seguito, è maestra e poi direttrice dell’asilo “Regina Margherita” di Saluzzo, e nella casa di Alassio.

Elvira è una suora felice, ma ad un certo punto nasce in lei un forte desiderio, «come un fuoco», una spinta interiore che la orienta sempre di più a impegnarsi per i giovani: in preghiera, dinanzi all’Eucaristia, le sembra di poter percepire il loro “grido” di dolore. «Li vedevo “senza pastore, senza punti di riferimento, allo sbaraglio, con tanto benessere, i soldi in tasca, la macchina, la cultura, con tutto quello che si sarebbe potuto dare loro di materiale, eppure tristi e morti nel cuore».

Per sette anni consecutivi suor Elvira domanda ai suoi superiori il permesso di intraprendere questo nuovo cammino, che le viene ripetutamente negato a causa della sua inesperienza nel campo in cui desidera operare.

Il 16 luglio 1983, nel giorno della Madonna del Carmine, suor Elvira insieme ad altre due collaboratrici sale sulla collina di Saluzzo per dare inizio a quest’opera. Aveva ricevuto dal Comune le chiavi di una villa abbandonata e diroccata da anni, senza porte né finestre, con il tetto da riparare, priva di qualsiasi accessorio. Ma suor Elvira tira un grande sospiro di gioia: «Mi ricordo che le viscere hanno danzato!». Vedendo in che stato si trova la casa, le persone che le sono accanto si mettono le mani nei capelli. «Io guardavo i loro volti smarriti ma “vedevo” già tutto quello che doveva succedere, “vedevo” la casa già così com’è oggi: ricostruita, bella e piena di giovani!».

Senza sicurezze materiali, con tanti sacrifici e tanta preghiera, comincia questa avventura di cui solo Dio conosce pienamente il futuro sviluppo. Iniziano a bussare alla porta i primi giovani: persone lacerate, disperate, drogate, ai margini della società, che cercano un rifugio, un riparo, un luogo per rinascere.

Suor Elvira non accetta gli aiuti dallo Stato, né alcuna retta da parte dei genitori dei giovani accolti. Avendo scoperto fin da piccola, negli anni della povertà, che Dio è Padre, Elvira desidera che anche i giovani possano non solo sentir parlare di Lui, ma sperimentare la sua paternità in modo concreto. Perciò si rivolge così a Dio: «Io li accolgo e Tu dimostra loro che sei Padre!», e la sua preghiera viene sempre più esaudita, attraverso innumerevoli episodi, piccoli e grandi.

Elvira si mette così alla scuola dei giovani che accoglie, imparando da loro ciò di cui hanno bisogno per cambiare vita. In questo modo nasce la proposta della preghiera, che diverrà parte fondamentale del cammino di rinascita: vedendo lei e i suoi collaboratori che pregano ogni mattina, un giorno un giovane si avvicina e chiede di poter pregare, seguito poi da altri. Lì, suor Elvira comprende che i ragazzi le chiedono di incontrare Dio, che hanno fame e sete di Lui. Prende forma, così, la Comunità Cenacolo. Elvira vuole che sia «una scuola di vita esigente», per liberare i giovani da ogni dipendenza e far incontrare loro la verità di sé stessi e l’amore di Dio, impegnandosi in una vita scandita dal lavoro, dalla preghiera e dalla vita fraterna.

Si aprono così nuove case, una dopo l’altra. Si rivela determinante in questo sviluppo un pellegrinaggio nell’estate del 1986 nella terra di Medjugorje, in Bosnia Erzegovina: da lì, la Comunità Cenacolo viene conosciuta in tutto il mondo. Le case si moltiplicano, prima in Italia, quindi in Europa, in America e poi in altre terre: attualmente le fraternità sono 72, presenti in 19 paesi del mondo, sparse nei quattro continenti.

Madre Elvira, come cominciano a chiamarla i suoi giovani, vive tutto questo con immenso stupore: «Sono io la prima a sorprendermi di quello che sta avvenendo: come avrei potuto, io, inventare una storia così?», consapevole che tutto è opera dello Spirito Santo. L’orizzonte missionario si apre Attenta alle ispirazioni di Dio, Madre Elvira comprende che deve aprire le case anche per le ragazze perché «sono le più povere»: hanno bisogno che qualcuno parli loro dell’importanza della donna e del grandioso capitale d’amore e di vita che portano dentro, da poter distribuire a tutti, specialmente all’uomo e ai figli. L’8 dicembre del 1993 si apre la prima fraternità femminile a Savigliano (Cuneo).

Attraverso il desiderio di un ragazzo ex-tossicodipendente e segnato dall’AIDS, Nicola, e grazie alle sue preghiere e alle sofferenze offerte per i più piccoli, la Comunità apre il cuore a bambini e adolescenti abbandonati ed emarginati: così, nel gennaio del 1996 Madre Elvira invia in Brasile il primo gruppo di ragazzi e ragazze missionari.

Nel tempo, le realtà della Comunità si moltiplicano: tanti giovani rinati a vita nuova rimangono, per tendere la mano ad altri che sono in difficoltà, diventando così i primi “missionari”; si formano le prime famiglie “cenacoline”; si presentano a Madre Elvira ragazzi e ragazze che sentono la chiamata di Dio a consacrarsi nella Comunità. Di fronte a questa ultima “sorpresa” dello Spirito Santo, dopo un po’ di titubanza iniziale, Madre Elvira accoglie con gioia l’ultimo virgulto nato dalla “povertà dei tossici”.

Verso i 70 anni, Madre Elvira inizia a presentare i sintomi di una malattia che la porterà a non poter più parlare e gradualmente a dover essere assistita giorno e notte. Elvira porta questa croce con tanta libertà e con il senso dell’umorismo che l’ha sempre caratterizzata, paragonando la mancanza sempre più frequente di parole al linguaggio dei bambini, che fanno “ta-ta-ta”.

Nonostante la malattia e l’età, Madre Elvira conserva il vigore di sempre: la sua voglia di vivere la spinge a resistere, a lottare, a non fermarsi, a cominciare ogni giornata con il sorriso. Questo genera intorno a lei un circolo di amore e di vite che servono, che si sacrificano e si scomodano. La sua vita nell’ultimo periodo continua a insegnare e a trasmettere tanta fede e tanto amore.

Madre Elvira trascorre gli ultimi anni della sua vita nella Casa di Formazione, assistita e custodita con amore dalle sue suore: «Servire è regnare!», diceva sempre, e le sue figlie si prendono cura di lei che, da vera “regina”, ha speso tutta la sua vita nell’«amare, amare, amare… e servire». «Guai quando dicono che Elvira è morta! Non lo dite, per favore. Dovete cantare, ballare…. Perché io sono viva. La vita non muore!». L’Eternità si spalanca per Madre Elvira il 3 agosto 2023 alle 3.50, all’età di 86 anni, nella Casa di Formazione della Comunità Cenacolo.

I testi sono tratti da www.comunitacenacolo.it

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