Quest’anno il coronavirus ha sorpreso tutti noi cambiando all’improvviso e ovunque la vita familiare, lavorativa e pubblica delle persone. Molti si sono trovati a piangere la morte di parenti e amici cari. C’è chi si trova in difficoltà dal punto di vista economico o ha perso il posto di lavoro.

Evidentemente la pandemia ci pone degli interrogativi fondamentali sulla felicità nella nostra vita e sulla nostra fede cristiana. Siamo di fronte ad un segnale di allarme che porta a riflettere su dove poggiano le radici più profonde.

Ecco, cercando in rete il titolo di questo post si può trovare già più di una riflessione, qui invece troverete un articolo scritto apposta da Benedetta de Vito.

Buona lettura!

Il 4 di febbraio di quest’anno, e a ritroso anche nel passato, a Sant’Agata dei Goti, la piccola stupenda basilica che mi vede, allo spuntar del giorno, tra i fedeli, si celebra, in latino, la santa messa in onore e ricordo della piccola grande martire che testimoniò fino alla morte la sua fedeltà al Signore. Viene per l’occasione il cardinale Raymond Burke, un uomo di Dio, un pastore buono, una dolce guida, e con lui i suoi sacerdoti: tanti, tutti belli nelle vesti talari che sembrano dire, allegri, al mondo “io appartengo al Signore!”. La chiesa, nel silenzio che la affoga, si riempie di pia devozione. Ci sono signore che, per l’occasione tirano fuori il velo bianco o nero, che incornicia il viso e crea, per loro beate, una piccola chiesa nella chiesa. Al terzo banco, sulla sinistra, c’ero anche io, in ginocchio, perduta nel gregoriano. Al momento della Santa Eucarestia una voce angelica, nella invisibile persona, intona da lassù dove re è l’organo l’”Adoro te devote” e, nel canto d’amore di San Tommaso, il mio cuore affoga nelle onde d’oro della carità, in ringraziamento e lode.

Ma brusco è il risveglio un mese circa dopo: le chiese chiudono, niente sacramenti. E’ il tempo del covid19.

Fu sgomento e sconforto, per me, abituata ai santi riti quotidiani. Fastidio ricamato di magone che, nell’esercizio spirituale, si trasformò presto in preghiera. Santa Caterina mi ispirò il da farsi: “Fai del tuo cuore una cella e nella cella il Paradiso”. E la preghiera in me fiorì. La rabbia si trasformò in accettazione della Croce e questa si tradusse in parole scritte. Vestii l’armatura d’oro di San Michele, impugnai il mio arco di arciera nata sotto il segno del sagittario, intinsi la penna nell’inchiostro turchino del cielo e scrissi al Vescovo vicario di Roma, implorandolo di riaprir le chiese, anche senza funzioni. Almeno poter varcar la soglia della casa del Signore, che è anche nostra, prostrarsi in adorazione davanti al Santissimo, stare con Lui che ci ama e che amiamo! Mandai la mail e, nel trascorrere dei giorni, ricordo che davanti alla mia parrocchia, intitolata alla Madonna dei Monti, incontrai uno dei sacerdoti, un professore, l’uomo di Dio che tante volte ero andata ad ascoltare, prendendo appunti, nella sua lectio divina. Disoccupato, vestito come un signore qualsiasi, in faccia una mascherina che non finiva più, sgattaiolava via con i giornali sottobraccio. Lo fermai con il guinzaglio della voce: “Allora, non fate nulla? Ci abbandonate?” Non rispose. Continuai: “Allora, ho più fortezza io?”. Fece sì con la testa e scappò via.

La sua risposta mi scorò, eravamo soli, pecorelle allo sbando, smarrite. Neanche la grazia della messa di Pasqua! Soli. Poi però, almeno le parrocchie riaprirono. Fu una tale benedizione che io, appena ritagliavo dei minuti santi dai doveri quotidiani, ero lì alla Madonna dei Monti. Mi rifugiavo, a recitare il rosario, davanti a una piccola cappella sulla navata sinistra dove riposa il sonno del giusto un santo vescovo di nome Guglielmo Giaquinta, che fu fondatore del movimento Pro sanctitate. Le vie misteriose del Signore mi avevano condotto, una sera di tanto tempo fa, ma non ricordo bene quando, a una messa dedicata al Monsignore nel giorno della sua traslazione ai Monti, dove era stato, giovanissimo vice parroco. Nel muto nostro conversare, sotto i cieli aperti del Signore che non sono quelli pettegoli degli uomini né gli arcobaleni di Satana che fanno apparir vero ciò che non lo è, respirai nella verità. Tutti sono chiamati alla santità, volgendo il cuore al Signore, lasciando che lo Spirito Santo risucchi l’anima e la riconduca al suo Creatore. Oh, la meraviglia di esser tralci della vite che è Via, Verità e Vita! La cella di Santa Caterina fu la mia salvezza e Monsignor Giaquinta mi insegnò che, dopo la penitenza, sarebbe venuta la grazia, lungo le strade del Signore che sono imperscrutabili a noi piccoli uomini. E che non importava affatto che la chiesa fosse vuota perché il Signore, un giorno, l’avrebbe riempita. Sorridevo tra me, nel recitare i misteri della gioia…

E d’un tratto, mentre ero lì nella Chiesa vuota, io e il Monsignore soltanto, a tu per tu, nel nostro incontro di anime e muto, ebbi in dono una visione e un ricordo e vidi la fede nel suo splendore bambino, forte, ridente, ordinato, meravigliosamente armonioso. Non caos, ma cosmo, non pandemonio, ma armonia. Sono a Santa Maria Maggiore e d’un tratto, nel ventre d’oro della Basilica liberiana, ecco entrar un piccolo esercito di bambine, condotte da alte e solenni monache domenicane, ben chiuse nei loro mantelli neri. Osservo quell’allegria composta che mi parla, nell’ordinata sua primavera, di un altro tempo, di quando, nella primavera mia, stirata nella divisa dell’Istituto Mater Dei, vedevo un altro mondo, un mondo con i piedi ben piantati sulla terra e il capo in cielo. Un mondo che ho ritrovato, nel bel dono, quella dolce mattina, proprio a Santa Maria Maggiore, in quella nuvola di giovinezza in uniforme, col basco in capo, un basco parlante che grida al mondo “veritas”: loro, tante, deliziose Madeleine ritrovate, venute fin qui – e sorrido – per me e per tutti da Parigi…

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